2.
A fronte di
questi problemi il governo Letta appare persino più inetto del governo Monti –
che ci aveva addirittura illuso a un tratto di voler alzare la voce con
Berlino, prima di relegarsi nella spazzatura della storia. L’impotenza del
governo è palese, malamente mascherata con un gran parlare di disoccupazione
giovanile, quasi che quella adulta non fosse parimenti grave e non facendo
comunque nulla per entrambe. L’ipocrisia di Letta nel rivendersi immaginari
successi al G8 è stata sfacciata, quanto il fumo venduto dopo il vertice
europeo. Il decreto “del fare” è un “facite ammuina”. C’è in questo un inquietante misto
d’ignoranza e cinismo verso il futuro del nostro paese. Eppure il precisino
Enrico Letta ha a disposizione fior fiore di economisti internazionali a
mostrargli quanto la situazione sia tragica, mentre ormai
quasi più nessuno difende l’ossimoro delle “austerità espansive”. Non hanno,
tuttavia, a mio avviso, neppure ragione coloro che se la prendono con i vincoli
europei come tali, invitando il governo a sforarli. Prima che l’Europa
sarebbero i mercati a punirci per aver tentato un’espansione in un paese solo.
La verità è che questa espansione non è possibile nell’ambito di un’unione
monetaria che è un vero e proprio gold-standard (come diverse ricerche hanno
messo in luce istituendo un parallelo fra sistema aureo e Unione Monetaria
Europea).
3.
In un sistema
aureo i livelli di occupazione di ciascun paese sono vincolati al pareggio
della bilancia dei pagamenti: tanto oro guadagni esportando, tanto ne puoi
spendere per importare. Ogni espansione in solitudine porterebbe a maggiori
importazioni e fuoriuscita del metallo prezioso solo temporaneamente
sostenibile attraverso l’indebitamento estero. Nel gold-standard se un paese ha
uno squilibrio commerciale, l’unico aggiustamento possibile è attraverso una
caduta di occupazione, salari e prezzi (deflazione) che diminuisca le
importazioni – più incerto essendo l’effetto positivo sulle esportazioni. Per
questo l’opzione per la piena occupazione, che la sfida sovietica impose ai
paesi occidentali, comportò il ripudio del gold-standard a favore di un sistema
di cambi fissi ma aggiustabili quale quello di Bretton Woods. In esso gli
aggiustamenti del cambio s’incaricavano della risoluzione di squilibri esterni
“fondamentali”. L’assenza di tale possibilità assimila l’UME al sistema aureo.
Qui come lì (e come nell’esperienza argentina del currency board) copiosi flussi di capitale dai paesi in surplus,
rassicurati dalla fissità del cambio, sembrarono illudere di una natura di tale
sistema favorevole allo sviluppo della periferia. Ma qui come lì l’esito è
stato una crisi debitoria della periferia. Vero che nell’UME quando i flussi di
prestiti esteri vengono meno, la BCE in un qualche modo li sostituisce (la
famosa questione attorno ai saldi Target 2), ma questo può solo procrastinare
il redde rationem degli squilibri esterni, e alla lunga gli aggiustamenti sono
inevitabili. E, coerentemente con il sistema aureo, la deflazione è la via di
aggiustamento prescelta dall’Eurozona.
4.
Ma se
respingiamo l’opzione A della deflazione come strumento di aggiustamento degli
squilibri europei, in quanto controproducente, insostenibile socialmente e che
non può che culminare nella desertificazione produttiva della periferia, cosa
rimane? L’opzione B è quella di una garanzia della BCE sui debiti sovrani che
riduca drasticamente il rischio di default di questi paesi (e/o di fuoriuscita
dall’euro) determinando un immediato calo dei tassi di interesse. A seguire vi
dovrebbe essere un’espansione della domanda aggregata in Europa, guidata dalla
Germania, con gli obiettivi della piena occupazione e del riequilibrio delle
bilance dei pagamenti dei paesi periferici. Alternativamente o congiuntamente,
opzione C, la Germania si dovrebbe impegnare a sussidiare gli squilibri esteri
della periferia, come essa fa con i suoi land orientali, o fa la Lombardia con
la Calabria (nella sostanza è questa l’Europa federale vagheggiata dai
radicali). L’opzione A è inaccettabile per la periferia europea, quelle B e C
lo sono per la Germania. Essa non è stata (se non nella triste parentesi
Hitleriana), non è e non sarà mai un paese keynesiano, e tantomeno si può
chiedere al contribuente tedesco di sostenere un’immensa periferia (sebbene i
proventi del sostegno tornerebbero in Germania come acquisto di prodotti). Il
keynesismo i tedeschi l’han sempre lasciato volentieri fare agli altri a
sostegno del proprio mercantilismo. Che fare dunque?
5.
Un governo
minimamente consapevole della tragicità della situazione almeno tenterebbe di
mettere la Germania con le spalle al muro delle proprie responsabilità, che non
sono peraltro solo verso l’Europa poiché le politiche deflazionistiche che essa
impone si riverberano anche sugli equilibri commerciali globali. E questi sono
vieppiù esposti ai venti dell’instabilità, come accade in questi giorni in
seguito ai tentennamenti della politica monetaria americana, della tenuta del
modello cinese, dell’incerto successo dell’Abenomics e, appunto, delle assurde
politiche europee. Ragioni politiche e intellettuali – la sopravvivenza del
modello sociale europeo e la stabilità mondiale – depongono dunque per una
posizione forte e autorevole. C’è da essere pessimisti circa le reazioni
tedesche. E allora l’avvio di trattative segrete per un esito diverso può
diventare ineludibile. Lo faremmo sotto un inaudito ricatto di Germania e,
ahimè, Francia di ritorsioni commerciali.
Ma un po’ di schiena dritta si dovrà pur cominciare a mostrarla. In
questo quadro e con poche eccezioni, il dibattito congressuale nel PD appare
poco più di una lotta fra conventicole che ambiscono al potere, mentre la
segreteria appare inadeguata a sollevare il livello del dibattito volta com’è a
non far mancare il sostegno a un governo inetto.
ilmanifesto 2/7/2013
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