(di Gianluigi Nuzzi)
La rinuncia di Benedetto XVI è una notizia choc. Ci vorranno settimane, mesi per
capire i motivi di una scelta che rimarrà indelebile nella storia della
Chiesa riflettendosi sui suoi momenti cruciali, a iniziare dal prossimo
conclave. Nell’ultimo anno sono accaduti due fatti impensabili a due
persone unite dallo stesso destino. Il maggiordomo del Papa, Paolo
Gabriele, ha deciso di rendere note le spine della Curia Romana,
consegnandomi decine di documenti che ho pubblicato nel libro “Sua
Santità”. Ha deciso questo «per il bene della Chiesa», considerando la
scelta come unica via «per aiutare il Papa», violando
contraddittoriamente la sua fiducia. Gabriele, cattolico, devotissimo
al pontefice tanto da vederlo come proprio padre, per aiutare la Chiesa
ha compiuto un gesto estremo affinché tutti conoscano quanto accade e
ciò permetta di superare quei problemi che lasciano in stallo la Curia.
Pochi mesi dopo un’altra scelta, anche questa che stupisce il mondo
ancor più, lasciando disorientata non solo la comunità cattolica ma
tutti noi, credenti e non credenti. Un passo indietro «per il bene della
Chiesa». Quando frequentavo Gabriele, per settimane, mesi, ho sempre
percepito la sua inquietudine, il suo senso profondo di smarrimento e
impotenza per vicende della Curia Romana che viveva con dolore come
profonde ingiustizie. «Hai paura, Paolo?» gli ho chiesto un giorno. «Sì –
mi rispose – temo che il Papa non abbia la forza per superare queste
avversità, per cacciare i mercanti dal tempio». Leggevamo insieme le
carte con gli occhi lucidi, Gabriele temeva che questo magma nero
potesse come togliere luce al suo pontefice. Studiando le carte ho
percepito e condiviso questo suo stato d’animo, ritenendo la scelta di
Gabriele figlia del suo amore. Mai avrei pensato che lo arrestassero,
mai avrei pensato che Benedetto XVI facesse un passo indietro.
Però oggi va riconsiderato tutto quanto
accaduto. Cerco di rileggerlo. E un episodio che tenevo nell’anticamera
della memoria assume rilievo. Risale ai primi di giugno, pochi giorni
dopo la visita di Benedetto XVI a Milano, nella città in cui vivo, per
l’incontro mondiale delle Famiglie. Volli parlarne con il sindaco della
città, Giuliano Pisapia, un avvocato ateo di sinistra, un professionista
perbene, il primo cittadino che aveva avuto un colloquio privato con il
pontefice. Incontrai Pisapia il giorno dopo il colloquio con Ratzinger.
Il sindaco era scosso, turbato. Mi disse che aveva letto amore negli
occhi del Papa, ma aggiunse: «Sono colpito da quello sguardo. Benedetto
XVI ha paura». Gli chiesi: di cosa? «Ho avuto un profondo disagio,
Ratzinger mi parlava ma era come impaurito. E poi sai, sul sagrato del
Duomo avevamo
previsto una sedia per lui, una per il cardinale Scola e un’altra per
me. Solo poco prima della cerimonia ci hanno avvisato dal Vaticano che
sarebbe stato presente anche il cardinale segretario di Stato Tarcisio
Bertone e che bisognava aggiungere un’altra poltrona. Il cerimoniale ha
avuto poco tempo per adeguarsi a questo cambiamento». Ho pensato
all’inizio che forse Pisapia, il sindaco, si era emozionato,
suggestionato, ma scartai subito questa ipotesi: è una persona
razionale, pragmatica, che sa bene cos’è la paura avendola conosciuta
per decenni negli occhi dei suoi clienti, nei tribunali, ovunque. È uno
dei più conosciuti avvocati italiani, dopo decenni di tribunali capisci
chi dice la verità, chi mente, chi teme. Ma di cosa ha paura il Papa?
Forse della forza di quegli «individualismi», quelle «divisioni» che
mostrano «una Chiesa deturpata dalle rivalità», come ha affermato il
Santo Padre all’indomani dell’incredibile annuncio di fare un passo
indietro. Ancora, la memoria si affolla di ricordi, frasi, di questi due
protagonisti. Ripercorro gli incontri con Gabriele: «Benedetto XVI non
sempre viene tenuto informato di quanto accade in curia – mi diceva
Gabriele – talvolta critica Bertone ma non ha alcuna intenzione di
cambiare il proprio segretario di Stato. Anche perché questo getterebbe
ombra sul pontificato, e poi dovrebbe trovare un sostituto. Secondo me
non ne ha la forza». «Mandare a casa l’amico Bertone – mi confidava il
cardinale De Paolis – è impensabile, certe figure non possono essere
sostituite». La soluzione del problema ne creerebbe uno maggiore:
«Sarebbe come mettere un sigillo di verità a tutte le accuse che gli
vengono rivolte».
Ecco quindi una prima ipotesi per
spiegare la paura. Una paura rispetto alla gestione di una Curia finita
in stallo: da una parte il cambiamento, le riforme, dall’altra gli
interessi opachi, una visione poco ratzingheriana del potere. La
consapevolezza che fare un passo indietro avrebbe azzerato cariche e
poteri, e che dal nuovo conclave deve uscire una maggioranza solida del
2/3 dei porporati. Una maggioranza che deve aritmeticamente superare i
conflitti. Una paura più profonda, sicuramente in Gabriele, visto che
questo «è uno Stato, piccolo certo, ma dove puoi fare una strage e
uscire impunito», così mi confidò una volta facendo riferimento alla
strage delle guardie svizzere del 1998.
Criteri gestionali - E
oggi? Sulla scrivania del Papa, nell’appartamento pontificio al terzo
piano del palazzo Apostolico, rimangono gli ultimi dossier che dal 28
febbraio Benedetto XVI lascerà al camerlengo, il cardinale Tarcisio
Bertone. Sarà proprio quest’ultimo a seguire l’ordinaria amministrazione
di tutto il Vaticano fino alla conclusione del conclave. Per capire la
scelta di Benedetto XVI bisogna partire quindi proprio da qui, dalla sua
scrivania, dall’ufficio arredato con cura e semplicità. Se quelle
quattro mura potessero parlare, oggi avremmo un quadro più nitido,
preciso di quanto accaduto; parlano però i documenti, le carte che in
questa vicenda complessa e dalle molteplici letture rimangono i pochi
saldi punti di certezza.
Su quella scrivania fino a qualche giorno
fa c’erano le carte della questione della nomina del presidente dello
Ior – carica rimasta per mesi vacante dopo l’estromissione di Ettore
Gotti Tedeschi. Ratzinger ha indicato poche ore dopo l’annuncio delle
dimissioni che non intendeva procrastinare l’attesa. Ha deciso subito
la nomina del banchiere tedesco Ernst von Freyberg. Non poteva lasciare
la decisione al pontefice che avremo tra un mese, dopo aver atteso
tanto? Sulla scrivania c’è un altro fascicolo delicato: la questione
della riforma delle contabilità di alcuni enti benéfici. Questione
costola della più complessa decisione non più rinviabile di trovare due
soluzioni. La prima riguarda la risposta al calo delle offerte, che
riducono i margini di azione. La seconda tocca i diversi criteri
gestionali che si riscontrano nei bilanci dei singoli istituti, enti che
compongono la Chiesa nel mondo. Da tempo si ritiene necessario
omologare le scritture contabili, per evitare non solo usi impropri ma
soprattutto dispersioni di ricchezza. Si teme tuttavia una reazione
dalle realtà territoriali, che potrebbero vivere questa scelta come
un’ingerenza centrale. Il Papa segue quindi le vicende più rilevanti.
Non è dunque vero che è solo un fine teologo. Partecipa per quanto lo
informano e, spesso, si trova di fronte a quegli scontri, quei blocchi
di potere che, entrando in collisione tra loro, rallentano,
anestetizzano l’opera riformatrice portata avanti.
È accaduto con la storia di monsignor
Viganò, il numero due del governatorato, l’ente che segue spese,
appalti, forniture e servizi prestati nel piccolo Stato. Viganò denunciò
casi di corruzione, spese gonfiate, appalti poco chiari, e poi si
ritenne vittima di una congiura ai suoi danni ordita addirittura dal
segretario di Stato Bertone. Viganò scrisse tutto al Papa, lettere
pesantissime che segnalavano vicende oscure. Ci furono dei colloqui
privati tra Viganò e Ratzinger. Colloqui che turbarono il Santo Padre
tanto che, una volta salutato il monsignore, Ratzinger si confortava
nella cappella privata a pregare, rinviando gli impegni in agenda.
Certo non per paura, ma per trovare conforto, indicazioni e guida nella
preghiera.
Prelati compiacenti
- Così lo Ior, la banca nevralgica per gli investimenti e per il lato
più delicato che tocca questa teocrazia, ovvero il rapporto con il
denaro. Eravamo nel 2009 quando proprio Ratzinger e Bertone scelsero
Gotti Tedeschi, con l’incarico di mettere l’istituto al passo con le
norme anti riciclaggio. Sono passati quattro anni e ancora oggi quella
banca è come un grande profondo armadio pieno di scheletri. Ogni tanto
emergono dagli angoli del pianeta vicende che vedono dei conti intestati
a sacerdoti, suore, prestanomi, snodi essenziali di storie di
corruzione, malversazione, truffe e di criminalità finanziaria. Per
questo dei blocchi hanno cercato di porre un argine all’indispensabile
richiesta di trasparenza che veniva dagli organi di controllo
internazionali chiamati a valutare la bontà della banca. Perché non si
svuotano invece i cassetti, rispondendo alle richieste di assistenza
giudiziaria dei magistrati impegnati in inchieste che toccano la banca?
E soprattutto quanti, quali sono i conti scomodi di civili che hanno
trovato sacerdoti compiacenti per far custodire nel caveau della banca
del Papa i loro denari imbarazzanti?
Sono due questioni – Ior e Viganò- che
hanno pesato nella Curia Romana, e che sono arrivate sino alla scrivania
del Papa. Non è un caso che una delle ultime riunioni prima
dell’annuncio delle dimissioni avesse avuto al centro questioni
economiche e finanziarie. Fino ai colloqui con esperti di queste
vicende, come il cardinale Attilio Nicora – uno dei riformatori, ha
portato avanti anche in solitudine la battaglia per la trasparenza – e
Jean-Louis Tauran. Vicende che hanno contribuito – a mio avviso – alla
sua umile scelta di fare un passo indietro.
Ci sono stati poi altri elementi che
hanno determinato un’accelerazione: la fatica fisica, certo, magari
persino una malattia data per certa da diverse fonti, e la conclusione
dei cardinali della commissione sulla vicenda dei documenti riportati
nel mio libro. Sui primi due non mi dilungo perché se n’è ampiamente
scritto sui giornali nel mondo. Sulla relazione invece, in mano solo al
Papa e ai cardinali che l’hanno scritta, può essere utile una
riflessione. Quella relazione descrive un mondo diverso nella Curia
romana dai colori pastello che leggiamo. E che necessita di un
intervento forte, di riforma. Ma «il Santo Padre è stanco di quanto vede
– mi confidava Paolo Gabriele, l’ex maggiordomo del Papa già oltre un
anno fa – ma non ha la forza di portare avanti certi cambiamenti. Deve
essere così, perché altrimenti resta incomprensibile come mai non
reagisce di fronte a quanto accade».
Per amore della Chiesa
- Per una singolare coincidenza proprio in questi giorni Gabriele ha
ripreso a lavorare, dopo la detenzione per avermi passato fotocopie di
documenti e un periodo con la sua famiglia. Non più nell’appartamento
pontificio, ovviamente, ma all’ospedale Bambin Gesù di Roma, di
proprietà del Vaticano. Non ho più sentito Paolo da quando è iniziata
questa vicenda. Mi dicono però che dipinge molto, recuperando
l’esperienza del liceo artistico. Nature morte, arte figurativa. A volte
ho avuto la tentazione di telefonargli, di incontrarlo. Ma non è il
momento. Tutto quanto è accaduto nell’ultimo anno vuole ancora tempo per
essere compreso in ogni sua luce e ombra. È ancora aperta su Gabriele
l’inchiesta vaticana, non voglio metterlo in imbarazzo. Mi è
dispiaciuto solo che non si sia mai raccontato bene chi fosse Paolo
Gabriele, uomo semplice ma genuino. Ha un fratello più grande, una
sorella più piccola. Un passato come tanti: da adolescente aveva un
rapporto un po’ tempestoso con il padre, dirigente nella pubblica
amministrazione. Portava i capelli lunghi e il padre non voleva, tanto
che qualche volta Paolo se ne andava da casa. Chiedeva ospitalità a casa
di amici, come il figlio di un importante regista. Al liceo ha
conosciuto la moglie Manuela. Si amano da sempre, un matrimonio che
prosegue da 18 anni, felice. Poi la prima occasione di lavorare nel
grande mondo, la famiglia della Chiesa. È la chiesa dei polacchi a Roma
vicino al Tevere, tanto cara a Wojtyla, dove va ad aiutare il parroco.
Le leggende dicono che nello stesso periodo Gabriele puliva i bagni in
Vaticano. Un giorno un alto prelato li trovò tanto puliti da voler
conoscere chi li teneva così in ordine. Fu il passo che lo portò oltre
le mura, nel cuore del Vaticano. A metà degli anni ’90, quando andò in
pensione un membro della famiglia pontificia, Gabriele dopo la
valutazione – un colloquio con l’attuale cardinale di Cracovia Stanislaw
Dziwisz – vi entrò a far parte. Ho letto di tutto su di lui: faceva
comodo farlo passare per un ladruncolo, come se la gente possa credere
che si affida la cura del Santo Padre al primo che capita. In realtà
Paoletto era amato da tutti. Wojtyla gli era affezionato, lo chiamava
Paulus e gli voleva bene, al punto che gli diceva che era stato il cuore
misericordioso di Maria Faustina Kowalska a mandarlo lì, la santa
polacca canonizzata proprio da Giovanni Paolo II nel 2000. Gabriele era
un servitore devoto di Wojtyla, amico del maggiordomo che lo precedette
nell’incarico che coprì poi con Ratziger. Negli ultimi anni in tanti si
rivolgevano a lui per segnalare un disservizio, un problema, qualcosa
che non funzionava. Chiunque ha camminato con lui in Vaticano mi ripete
che spesso qualcuno lo fermava per svelargli storie, retroscena, nella
speranza che li condividesse poi con Benedetto XVI. Gabriele non era un
maggiordomo che apriva la porta e reggeva l’ombrello. Aveva una sua
scrivania elegante, uno scrittoio dove evadeva anche qualche piccola
pratica di corrispondenza o di consegna di somme allo Ior secondo le
indicazioni di monsignor Georg, il fedele indispensabile segretario di
Ratzinger. Diversi anni fa, quando lui confessò che non era molto bravo a
usare il computer e che temeva di non essere all’altezza, il Papa gli
disse: «Noi ti scegliamo non per quello che sai fare, ma per quello che
sei».
Essere vicini al Santo Padre deve dar
luce. E ogni volta che ho incontrato Paolo, ho percepito la luce nei
suoi occhi. Mille volte i giornalisti mi hanno chiesto perché mi ha
consegnato alcuni dei documenti che ho pubblicato poi nel mio saggio. Ho
sempre risposto con l’unica parola che ritengo giusta: per amore della
Chiesa e del Santo Padre, sollevando superficiale stupore. Ma come, chi
ama il Papa fotocopia i documenti e li porta a un giornalista, violando
la sua fiducia? Pare impossibile. Ma sono giorni, settimane, mesi che
spesso accadono fatti imprevedibili nella Chiesa, fatti di difficile
interpretazione. E che rimarranno scolpiti per sempre. Anche oggi
Ratzinger per il bene della Chiesa fa con umiltà un passo indietro,
provocando immenso stupore. E ieri pareva e pare impossibile che
Gabriele fotocopiasse documenti dal 2006 senza che per anni nessuno se
ne fosse mai accorto. E quando uscì il libro venni attaccato per aver
fatto il mio mestiere.
Voci di trame e complotti
- Oggi la scelta viene riletta, il libro riesaminato cercando le
dirompenti verità che possono aver spinto Benedetto XVI a una scelta
inattesa. Ieri pur di non leggere quei documenti si è dato spazio a una
campagna mediatica per trovare le fonti di Nuzzi, come se fosse più
importante non esaminare le cose che non vanno, ma scoprire chi si
permette di farle conoscere. Oggi si ritiene che quelle carte possano
essere chiavi per capire cosa accade. Dentro e fuori le mura che
proteggono il piccolo e potente Stato nel cuore di Roma. Per capire
questo un giorno feci a Gabriele una intervista coperta per il mio
programma su La7. C’eravamo visti per un saluto, tra due persone che
stanno facendo una scelta senza ritorno. Mangiavamo una pizza nella
cucina della mia casa romana, non lo avvisai in anticipo per non
preoccuparlo e gli dissi all’ultimo minuto che in soggiorno c’era una
mia troupe. «Paolo, dobbiamo spiegare quello che succede». Lui accettò
per motivare un gesto. Era emozionato. Io quanto lui. Credevo che le sue
risposte avrebbero fatto capire che di fronte al peso delle denunce,
delle storie, dei documenti, si imponeva il desiderio primario di far
conoscere tutto, perché solo l’emersione dei fatti aiuta nella
trasparenza. Era accaduto già nel 2009 quando con il mio libro “Vaticano
SpA”, con la storia della più grande tangente mai scoperta in Italia,
pulita nella banca del Papa, venne mandato a casa dopo vent’anni
l’allora presidente dello Ior Angelo Caloia. E proprio quel libro
convinse Gabriele a contattarmi. Mi sbagliavo. L’intervista mandata in
onda con il volto coperto e la voce modificata alimentò ancora la caccia
alle mie fonti informative. Se si fosse saputo che era nata quasi per
caso, che non c’era dietro alcuna cospirazione, forse la storia sarebbe
andata diversamente. Forse. Come quando mesi dopo cacciarono il
presidente dello Ior Gotti Tedeschi. Se in Vaticano non avessero sparso
la voce velenosa dell’ennesimo complotto e trama contro la Chiesa e il
Papa, ovvero che quel banchiere vicino all’Opus Dei voleva far
commissariare lo Ior dalla banca centrale italiana, la storia sarebbe
andata diversamente. Ma ormai siamo a poche settimane dal conclave,
l’unica speranza che resta per ritrovare chiarezza è che la scelta dei
cardinali abbia la stessa forza, lo stesso coraggio di quella fatta da
Benedetto XVI. Che ora vuole «rimanere nascosto al mondo». Per il bene
della Chiesa. Senza più paura.
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