In un simpatico post del suo blog Paolo Manasse porta avanti un’argomentazione estremamente plausibile: quando si ha un problema, bisogna rivolgersi a uno specialista. Auguriamo al prof. Manasse di non aver mai un problema, perché leggendo il suo post si capisce quanto sia poco in grado di scegliere uno specialista.
Sì, perché la lezioncina dello stimato collega
quale scopo ha? Quello di dimostrare che nel dibattito che si è svolto
recentemente fra Loretta Napoleoni e Michele Boldrin, il telespettatore ignaro deve dar ragione a Boldrin, poiché questo ce l’ha più lungo (il curriculum), e quindi è più esperto.
Il simpatico Manasse, commette però
uno scivolone logico. Uno specialista, per
definizione, è una persona dotata di competenze specifiche in un
settore. Lo specialista non è quello che possiede “molta”
competenza, ma quello che possiede la “specifica”
competenza utile al caso.
Immaginiamo il prof. Manasse il giorno in cui dovesse trovarsi nella spiacevole situazione che descrive nel suo post,
quella di avere un tumore. “Presto, portatemi da uno specialista!” “Be’,
ci sarebbe proprio qui, nel palazzo, lo studio di un internista...”
“No, portatemi dall’ortopedico del terzo piano, ha molte più
pubblicazioni, ed è primario di un reparto importante...” “Ma lui è
esperto di rotule, tu hai un problema al fegato!” “No, no, fate come
dico io, l’esperto di rotule si è sottoposto al severo vaglio della
comunità scientifica internazionale”.
Requiem aeternam...“Economista”, in realtà, non significa nulla, puoi anche essere un clarinettista con 10 dischi di platino al tuo attivo, ma se ti chiamano a suonare un preludio di Chopin per pianoforte sicuramente ti mancherà qualche nota. E se hai un cancro non vai da un ortopedico, a meno che tu non sia Manasse.
Ora, io non so Loretta Napoleoni di cosa si occupi. Sicuramente Boldrin non si occupa di economia internazionale:
lo dimostra la sua copiosa produzione scientifica (tutta in altri campi
dell’economia), e lo dimostrano soprattutto le perle che profonde nei dibattiti televisivi. Quindi il povero Manasse incassa,
con la sua deludente caduta di stile, un autogol di proporzioni
cosmiche. E a noi piace ricordarlo così, muto di fronte a Claudio Borghi Aquilini...
Non vorrei sottrarvi troppo tempo, ma due o tre dettagli vorrei
farveli notare, ricordandovi le bellissime parole del padrone di casa:
“chi non ha tempo, non ha neppure speranza”. Ecco, prendetevi un po’ di
tempo. Comincerei dalla fine.
Al minuto 10:50 del video si scatena una amena gazzarra su quanto
abbiamo svalutato nel 1992 e su cosa sia effettivamente successo: è
stato il 12%? È stato il 40%? E veramente non è successo nulla, come
entrambi i contendenti affermano? O è successo qualcosa?
Guardate che il punto non è di dettaglio. Questo fatto storico,
cioè l’uscita dell’Italia dal Sistema Monetario Europeo (SME) di cambi
fissi nel 1992, viene regolarmente travisato dai media, con intenti
terroristici. Volete un esempio? Sentitevi quest’altro espertone di economia internazionale,
l’on. Tabacci, secondo il quale uscire oggi significherebbe dare “in
una notte” una stangata del 50% alla nuova lira, “tosando le pecore”,
perché il giorno dopo per andare a fare la spesa ci vorrebbe “la sporta
doppia di monete” (argomento tipico dei nostri politici da avanspettacolo).
Un po’ quello che dice Boldrin, il quale, con la coerenza alla quale ci
ha abituati nei suoi interventi, prima ci dice al minuto 9:20 svalutare
“sarebbe una tragedia per i lavoratori italiani” (si vede quanto gli
stanno a cuore!), poi ci dice che l’ultima volta che lo abbiamo fatto
non successe nulla. Tutto e il contrario di tutto in un minuto e mezzo.
Vi dico subito quali sono i due errori marchiani dei nostri due
espertoni. Il primo è quello di voler veicolare il messaggio che la
svalutazione sarebbe istantanea: 12%, 50%, 10000% (chi offre di più?) in
una sola notte! Il secondo è quello di confondere sistematicamente la
perdita di valore sui mercati finanziari internazionali (la
svalutazione) con la perdita di valore sui mercati reali interni
(l’inflazione). Ora, se occorrono più euro (o più lire) per acquistare
un dollaro, non è detto che per questo occorrano più euro (o più lire)
per acquistare un giornale o un filone di pane.Vogliamo guardare i dati, così, per fare una cosa originale? La Fig. 1 riporta il tasso di cambio lira/ECU dal 1990 al 1998.
Perché uso questo cambio? Vi ricordo che l’ECU, European Currency Unit, era una unità di conto costruita considerando una media delle valute aderenti allo SME. L’ECU serviva da punto di riferimento per i cambi dello SME e fu il precursore diretto dell’euro: il cambio di 1936.27 al quale entrammo nell’euro nel gennaio 1999 era appunto quello che ci legava all’Ecu nel dicembre 1998 (ma tutto questo Boldrin non lo sa, come ho documentato qui). Quindi, se parliamo di svalutazione della lira nel contesto dello SME, il cambio lira/ECU è la scelta più naturale.
Intanto, dai dati si vede che la fluttuazione della lira andò avanti dal settembre 1992 al novembre 1996, come ci ricorda l’ottima cronologia della Banca dei Regolamenti Internazionali.
Nell’agosto del 1992 ci volevano 1545 lire per un Ecu (vi risparmio i
decimali) e dopo lo sganciamento, nell’ottobre, ce ne volevano 1731,
cioè circa il 12% in più. Quindi il prof. Boldrin riesce in un pezzo di incredibile virtuosismo: mentire, dicendo la verità!
Perché è sì vero che nell’immediato la svalutazione fu del 12%, ma è pure vero che non fu un blip,
come dice lui per fare l’amerikano, cioè un fenomeno transitorio. Al
contrario, proseguì fino all’aprile del 1995, quando, per un Ecu, ci
volevano 2295 lire, cioè il 48% in più che nell’agosto del 1992. Nel giro di meno di tre anni svalutammo quasi il 50% rispetto
all’Ecu (la cifra evocata dall’ineffabile Tabacci), e, se volete
saperlo, del 55% rispetto al dollaro.
Chissà che iperinflazione, chissà che perdita di potere d’acquisto,
chissà che “tosata” per i lavoratori, per dirla con Tabacci! Sicuramente
il loro potere d’acquisto sarà calato del 50%, cioè i prezzi dei beni
sui mercati interni saranno aumentati (a spanna) del 50%, visto che, con
il dollaro più costoso del 50%, l’aumento dei prezzi delle materie
prime avrà schiacciato l’economia italiana.
Invece no. L’impatto della svalutazione sui prezzi fu minimo. Lo
vediamo nella Fig. 2, che riporta l’indice dei prezzi al consumo, la
statistica che misura il costo della vita.
Vedete? I prezzi al consumo seguirono una bella traiettoria liscia e
regolare, per nulla influenzata dalla svalutazione del cambio: mentre
questo si impenna e poi precipita (Fig. 1), i prezzi (Fig. 2) vanno su
paciosi. Se, come nel grafico, mettiamo pari a
100 l’indice nell’agosto del 1992, vediamo che nell’aprile del 1995,
quando la lira si era svalutata di quasi il 50%, l’indice era aumentato
di appena il 13% (giungendo a 112.7).
Quindi i lavoratori furono tosati del 50%, come afferma l’espertone Tabacci?
No, evidentemente no, né in una notte, come dice per farvi
paura, né in tre anni. L’indice del salario reale, cioè dei salari
divisi per i prezzi, e quindi del reale potere d’acquisto degli italiani, tratto dal database AMECO è piuttosto chiaro: dal
1992 al 1995 l’indice diminuì, ma del 4%, cioè più o meno quello che
ha perso negli ultimi quattro anni, ora che abbiamo l’euro che ci
protegge. L’inflazione c’entrò poco o nulla, c’entrarono molto le
misure di austerità, prese anche allora per il nobile scopo di entrare
in Europa.
Ora, i fatti sono questi, e magari ad alcuni sembreranno
stravaganti, convinti che se, poniamo, il
dollaro ci costa del 50% in più, immediatamente il petrolio costa del
50% in più, e quindi tutto costa del 50% in più, nel giro di una notte
(come se tutto fosse fatto di petrolio...). In questo caso la
svalutazione sarebbe inutile, perché è vero che i nostri clienti esteri
pagherebbero del 50% in meno (a spanna) la nostra valuta, ma
l’inflazione interna farebbe costare del 50% in più i nostri prodotti, e
i due effetti si annullerebbero. Così, continuano,
inutile tornare al cambio flessibile: è inefficace come strumento, e di
converso, quindi, la rigidità dell’euro non è colpevole della situazione
nella quale ci troviamo
Ma le cose non stanno così: lo ha chiarito nel 1997 Maurice Obstfeld dell’Università di Berkeley, sui Brookings Papers on Economic Activity, e lo ha confermato nel 2012 Alexis Antoniades, della Georgetown University, sulla International Economic Review (se vi interessano i curriculum). Obstfeld, nel suo articolo intitolato “L’azzardo dell’euro”, chiarisce che l’aggiustamento
del cambio è importante, anche se non si trasferisce ai salari reali,
cioè anche se i lavoratori non vengono “tosati”, o magari “pagati come
in Cina”. Il motivo è che se i produttori fissano i prezzi nella valuta del proprio paese (producer currency pricing),
la svalutazione li avvantaggia comunque sui mercati esteri, anche a
parità di costo del lavoro nazionale. Quindi, per un paese europeo
rinunciare alla flessibilità del cambio ha un costo importante in
termini di prolungamento delle crisi economiche (come stiamo vedendo).
Il lavoro di Antoniades conferma che le imprese applicano in modo
prevalente il producer currency pricing, e conclude
confermando quello che era facile capire anche prima, cioè che “le
preoccupazioni espresse da Obstfeld sui benefici dell’euro sono
fondate”.
Certo, i mortali possono ignorare queste ricerche
specialistiche, ma il prof. Boldrin no, e certamente non le ignora.
Anche perché, sempre nel 1997, a margine dell’articolo di Obstfeld, un
altro economista rincara la dose: “Sono più pessimista di Obstfeld: secondo me, l’euro è un rischio che non dovremmo prendere”.
Sapete chi era? Alberto Alesina, che oggi appoggia l’austerità
montiana, a difesa di quello stesso euro da lui definito nel 1996 un bluff,
per motivi che trovo limpidi e tuttora validissimi. Vi pare possibile che
il prof. Boldrin non conosca l’opera del prof. Alesina? La leggiamo
perfino noi a Pescara!
È vero invece quello che afferma nel dibattito la Napoleoni, cioè
che le politiche di deflazione intraprese, quelle sì, stanno
riducendo a mal partito i cittadini italiani. Il motivo è semplice, e
lo ha tanto limpidamente espresso uno degli economisti di punta del
PUDE (Partito Unico Dell’Euro), Stefano Fassina: non potendo svalutare la moneta, si svaluta il lavoro.
Vi sembra il contrario di quello che dicono Tabacci e Boldrin? Sì, è
esattamente il contrario, ma è anche quello che sta succedendo, e lo
vediamo tutti, anche voi: credete ai vostri occhi!
È inutile girarci intorno. Quello di ridurre il resto dell’Europa
come la Cina, sbriciolando i redditi e i diritti dei lavoratori per
contare su un serbatoio di manodopera a buon mercato, si sta ormai
palesando come il disegno, più o meno lucido, della leadership tedesca.
Guardate, non ci vuole molto a capirlo: vogliono fare con il resto
dell’Eurozona quello che gli è riuscito con la Germania Est.
Ve lo ricordate?
Vi rubo ancora un attimo, vale la pena: il cambio fra marco dell’Est
e marco dell’Ovest era di tre a uno, ma fu presa la decisione di
fissare il cambio uno a uno, dotando i “cugini” dell’Est di una moneta
tre volte più “pesante” di quella di cui disponevano. Risultato: i
consumi all’Est aumentarono (e con loro le importazioni), ma la
competitività delle imprese fu sbriciolata (e con lei le esportazioni).
Quasi 1300 miliardi di euro passarono dall’Ovest all’Est, per colmare lo
squilibrio commerciale e finanziare la ripresa, ma a distanza di
vent’anni i risultati apparivano deludenti non secondo “il professorino
di Pescara”: secondo lo Spiegel!
Che vuol dire “deludenti”? Ma, ad esempio che nel 2008 il reddito di
una famiglia dell’Est era ancora solo il 53% di quello di una famiglia
dell’Ovest (sempre lo Spiegel).
I greci, agli imprenditori della Germania Ovest, costeranno ancora
meno, quando la loro economia sarà stata definitivamente distrutta. Poi
toccherà agli altri, fra cui noi.
Solo sganciandoci dal giogo della moneta unica e ripristinando la
flessibilità del cambio (come auspicavano il premio Nobel James Meade
nel 1957, o Alberto Alesina nel 1997) si può garantire un futuro a
questo continente. Non parlo di futuro economico: parlo di futuro e
basta, perché l’irrazionalità economica dell’euro rischia di condurci
alla catastrofe politica, come diceva, ancora una volta, Alberto Alesina
nel 1997: “si può pensare che la probabilità di conflitti aumenterà
se più paesi sono costretti a coordinarsi e a venire a compromessi su
diversi argomenti a causa di una inutile unione monetaria”.
Quindi, quando difendono l’euro, Tabacci forse no (diamogli il
beneficio del dubbio, visto che non è del mestiere e visibilmente non sa
di cosa parla), ma Alesina e Boldrin sono certamente consapevoli di divulgare delle “lievi imprecisioni”.
È la leadership degli eurocrati che vuole portarci a competere al
ribasso con la Cina in tema di diritti e redditi, e questo loro lo
sanno. Siamo certi che la loro convinzione nel sostenere questo progetto
suicida per il loro paese gli spianerà la strada di una brillante
carriera politica.
Dipende da voi...
1 commento:
Al di là delle balle di Boldrin (non mi interessa), dimentichi di considerare il collegamento fra economia finanziaria e reale. Ipotizzando anche che la svalutazione non porti un effetto drastico nel breve periodo, devi considerare che le ripercussioni sul debito pubblico (perché i tassi si alzerebbero drasticamente) avrebbero un'effetto recessivo sull'economia reale, cosa che stiano pagando tuttora noi italiani. Il fatto che "stiamo svalutando il lavoro" non è a causa dell'euro, ma di riforme che potevamo fare e non abbiamo fatto. L'euro ci ha portato chiaramente una notevole riduzione dello spread.
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