da lindipendenza:
-Le regioni tosco-padano-venete sono spremute peggio che le
colonie africane del secolo scorso. Ogni anno lasciamo nelle casse
romane un valore doppio rispetto a quello di tutti i diamanti estratti,
raffinati e venduti al mondo. Roma grazie ai nostri sforzi dispone di un
portafoglio del valore di 125 Miliardi di euro ogni anno!
-Già oggi le regioni tosco-padano-venete pagano tutti gli interessi sul debito pubblico. (circa 75 miliardi)
-Le regioni tosco-padano-venete sussidiano il tenore di vita dell’Italia
mediterranea. (circa 25 miliardi trasferiti al sud ogni anno)
-Roma spende per l’apparato istituzionale e diplomatico più di quello che resta (oltre 25 miliardi ogni anno)
-Roma finanzia la spesa in eccesso rastrellando risparmio privato, in
altre parole vendendo titoli del debito pubblico. Dopo decenni di spese
incontrollate, l’importo dei capitali privati affidati allo stato
italiano ha raggiunto l’astronomica cifra di 2 Mila Miliardi.
I risparmiatori privati hanno volontariamente sottoscritto i titoli di stato.
Ovvero hanno dato a prestito allo stato i loro risparmi in cambio di
una promessa: riavere indietro i soldi ad una scadenza stabilita ed
avere una piccola rendita periodica sotto forma di interessi. Questo è
il debito pubblico: contratti tramite i quali lo stato promette di
restituire ai risparmiatori il capitale e gli interessi. Qualcuno dice
che il debito è un trucco contabile, che non esiste, che è colpa
dell’euro o della Banca Centrale o di un complotto internazionale. Altri
dicono che è tutta colpa della perdita della “sovranità monetaria” e
che basterebbe tornare alla lira e ridare allo stato la possibilità di
stampare banconote, quante gliene occorrono per pagare le sue spese.
Queste sono affermazioni che non corrispondono al vero e che non aiutano
a trovare alcuna soluzione.
1) Che il debito pubblico sia una posta contabile è vero, ma certo non è un trucco. Talvolta
è lecito dubitare delle statistiche ma è difficile credere che sia
sbagliato il conto del debito. Infatti, per ogni euro dato allo stato,
c’è un soggetto privato che quell’euro l’ha prima guadagnato e poi l’ha
volontariamente prestato allo stato medesimo. Di questa transazione c’è
una traccia contabile ben precisa e, per fortuna per il risparmiatore,
non c’è proprio nessun trucco! E’ un dato di fatto ma non rappresenta
alcuna soluzione!
2) Ad ogni debito corrisponde un credito, questo è forse la base sottostante all’affermazione che: “il debito non esiste”.
Qualcuno potrebbe considerare di compensare debiti con crediti e quindi
azzerare il debito. La compensazione è possibile solo in capo al
medesimo soggetto, altrimenti è una frode. Certo nel debito pubblico il
debitore è uno solo: lo stato come organizzazione. I creditori però sono
molteplici e distinti: siamo noi risparmiatori, privati cittadini che
sui nostri risparmi ci contiamo e ci facciamo affidamento per vivere e
fare impresa. Cancellare il debito pubblico significa derubare noi
risparmiatori dei nostri risparmi. Significa che pensionati, famiglie,
imprese e banche italiane ed estere perderebbero il loro legittimo
diritto a riavere i loro soldi. Un disastroso colpo di spugna sugli
impegni presi dallo stato, a unico vantaggio della nostra fallimentare
classe politica. Cancellare il debito sarebbe autolesionismo, tutt’altro
che una buona soluzione!
3) Attribuire la responsabilità del debito all’euro è
un modo per i politici nostrani di scaricare la loro responsabilità.
L’euro è solo l’unità di misura del debito, né più né meno che il litro
per i volumi o il chilo per i pesi. Se ci fossero ancora le lire, non
avremmo meno debito, semplicemente dovremmo scrivere più zeri e parlare
di milioni di miliardi. Un chilo d’oro pesa come un chilo di fieno. Solo
che la liretta di paglia è molto più difficile da maneggiare e da
difendere; come la paglia, la lira si deteriora nel tempo (ovvero il suo
potere d’acquisto è eroso dall’inflazione) e costerebbe cara (ovvero
dovremmo pagare tassi di interesse ben più alti di quelli che conosciamo
oggi). Tornare alla lira farebbe schizzare i tassi d’interesse sui
debiti: molte imprese e molte famiglie in crisi riceverebbero il colpo
di grazia. Tutt’altro che una soluzione!
4) Mettere in mezzo la banca centrale europea come
responsabile della nostra condizione significa non conoscere la storia.
Il governo italiano già dal 1981 ha ceduto la politica monetaria alla
banca d’Italia, per l’esattezza questo divorzio ha avuto luogo il 12
febbraio 1981 ad opera del ministro Beniamino Andreatta. In quella data
il governo toglieva l’obbligo alla Banca d’Italia di acquistare,
emettendo valuta, i titoli del debito pubblico non collocati sul
mercato. Da quella data se lo stato italiano avesse speso troppo, non
avrebbe potuto semplicemente stampare lire, ma avrebbe dovuto trovare
dei risparmiatori cui chiedere in prestito i soldi di cui aveva bisogno.
Togliendo la politica monetaria dal diretto controllo politico, si
riuscì a fermare l’iperinflazione degli anni 70. Infatti, la politica
monetaria gestita dai politici trovava molto semplice coprire i
fabbisogni dello stato facendo stampare nuova moneta dalla Banca
d’Italia. Dal 1981 questo non è stato più possibile, si è messo un
controllo alla moneta, ponendo un limite, già allora, il volume di
banconote in circolo nell’economia reale. Sappiamo che questo non fu la
soluzione di tutti i mali, poiché a causa dell’inettitudine della classe
politica italiana, il debito cominiciò a crescere, anno dopo anno, a
livelli eccessivi. Gli anni ’80 furono quelli del “pentapartito” e della
“Milano da bere”. Anche allora la classe politica italiana non è stata
in grado di ridurre le spese ed ha intrapreso l’unica strada che le
restava per finanziare le politiche assistenziali e le spese della
casta: ha offerto ai risparmiatori i titoli del debito pubblico.
Nel primo decennio del duemila, con l’euro, la storia si è ripetuta,
ma con proporzioni amplificate. Se oggi, lo stato potesse semplicemente
stampare nuova moneta per finanziare le sue spese, come vorrebbero
coloro che auspicano il ritorno nei nostri confini della “sovranità
monetaria”, avremmo immediatamente troppa moneta in circolazione e
quindi forte inflazione dei prezzi con danno per tutti, soprattutto per i
ceti più deboli. Il passaggio all’euro e alla Banca Centrale Europea
nel 2001 non ha sostanzialmente cambiato la possibilità del governo
italiano di influenzare la politica monetaria. Questa separazione tra le
scelte di politica monetaria e la responsabilità riguardo alla politica
fiscale era già in vigore da venti anni. Comunque la Banca Centrale
Europea ha portato alcuni sensibili vantaggi. L’impegno di diciassette
paesi a centralizzare le politiche monetarie ha generato una grande
opportunità per paesi spendaccioni come l’Italia unita. Con l’euro, i
tassi d’interesse sono stati bassi e controllati. Dal 2001 al 2008 le
imprese e le famiglie italiane hanno pagato tassi d’interesse molto
bassi, e di questo ne ha beneficiato anche il governo. Purtroppo però
Roma trovandosi a spendere molto meno per gli interessi non ha colto
l’opportunità di ridurre le spese, anzi il debito non ha mai smesso di
crescere. Uscire dall’euro e dalla Banca Centrale Europea avrebbe
l’effetto opposto. I tassi di interesse che l’economia pagherebbe
schizzerebbero all’insù, ben oltre il valore che oggi conosciamo come
spread, portando lo stato al fallimento e polverizzando i nostri
risparmi. Il governo aveva rinunciato alla sovranità monetaria, decenni
prima di entrare nell’euro, quando ancora c’era la lira. Vorremmo ridare
ai nostri politici la possibilità di stampare banconote per finanziare
la loro incompetenza? Non mi pare che sia una buona soluzione!
5) Taluni sostengono però che il ritorno alla lira e
l’uscita dall’euro sarebbe vantaggioso per i lavoratori ed i
consumatori. Questa ipotesi si basa sull’evidenza che nell’anno del
passaggio all’euro i salari sono rimasti invariati (1.600.000 lire
furono matematicamente convertiti in circa 800 euro) mentre molti prezzi
hanno trasposto le vecchie 1000 lire in una moneta da 1 euro. In molte
realtà, questa conversione bislacca avvenne realmente quando si entrò
nell’euro. Purtroppo però è opinabile che accada l’opposto se oggi
uscissimo dall’euro per ritornare alla lira. Con l’euro, i consumatori
che videro diminuire il costo dell’indebitamento privato (per esempio i
mutui) si trovarono con più soldi disponibili da spendere. In generale
grazie a questo beneficio, non trovarono la forza di reagire all’aumento
dei prezzi che avvenne a seguito della conversione dalle lire agli
euro. Contrariamente a quanto ci si sarebbe dovuti attendere,
all’aumento dei prezzi non seguì una diminuzione della domanda di beni o
servizi. Purtroppo se oggi si riportasse in Italia la sovranità
monetaria, e si ritornasse alla lira, il governo ricomincerebbe a
stampare banconote, cioè monetizzerebbe il debito. La conseguenza
sarebbe il riaccendersi dell’inflazione. Tradotto per la gente comune,
significa che i prezzi, non più in euro bensì in lire, salirebbero
ulteriormente, a danno ancora una volta dei risparmiatori e dei ceti
deboli. Tornare alla lira significa far esplodere l’inflazione, non è
certo una soluzione indolore!
6) Taluni dicono che l’andamento dei tassi sia pilotato da
qualche complotto internazionale. Ma questa tesi non è sostenibile se
si comprende che il tasso d’interesse altro non è che il prezzo del
denaro, determinato dal gioco della domanda e dell’offerta in un mercato
libero. Il mercato dei capitali globale è tra quelli più liberi e
concorrenziali. E’ illogico biasimare oggi il livello di prezzo
richiesto allo stato italiano per piazzare il debito. Questo mercato è
lo stesso che ha permesso al medesimo stato di piazzare analogo debito a
tassi ben più convenienti solo alcuni lustri or sono. Appena entrati
nell’euro, pareva credibile che l’Italia si avviasse su un sentiero di
convergenza verso l’avanzo di bilancio. Quest’aspettativa ha permesso ai
mercati di accettare dall’Italia tassi in linea con paesi dalla
migliore reputazione. Ora il tempo è passato senza segni credibili dal
lato della politica fiscale italiana: l’apertura di credito è scaduta.
In più il mondo è nel mezzo di una crisi globale. Non c’è da stupirsi se
oggi i risparmiatori e gli investitori preferiscono dare i loro soldi
ad istituzioni ed organizzazioni che hanno una storia di affidabilità
ben più solida. L’automatico riflesso di questo stato di cose è la
difficoltà dell’Italia nel piazzare il suo debito, e per convincere gli
investitori ad accordarle la loro preferenza, (ovvero a fidarsi ancora
delle promesse dello stato) deve rendere il suo debito più interessante e
promettere interessi più elevati. Quindi nessun complotto dietro
l’impennata dei tassi: semplicemente la dinamica dell’equilibrio della
domanda e dell’offerta. E’ un fatto che può non piacere, ma non
rappresenta la soluzione!
La soluzione al debito e la via maestra per uscire dalla crisi solo una.
Bisogna ridurre drasticamente la spesa statale. Occorre riportare il
bilancio statale in attivo riducendo la spesa pubblica. Meno soldi allo
stato significa tagliare i tentacoli della politica e della burocrazia.
Questo è quello che in Germania chiamano “austerità”. Purtroppo da noi
le politiche di “austerity”, parola tradotta in inglese così da potergli
dare il significato che più fa comodo, sono state messe in atto al
contrario: sono aumentate solo le tasse lasciando invariate le spese
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