di Luigi Pandolfi
Dire che il dibattito politico oggi in Italia è surreale
è forse troppo poco. Me ne sono ulteriormente convinto dopo confronto
tra i candidati alle primarie del Pd. Non che la situazione prima di
questo reality difettasse di elementi per trarre una simile conclusione,
ma il fatto di poter ascoltare tutti insieme coloro che si candidano a
guidare il prossimo governo del paese è stato decisivo per fugare ogni
dubbio sull'inanità della classe politica nostrana.
Provo a spiegare le ragioni di questa mia severa presa di posizione.
Primo. A cosa servono queste primarie? A scegliere il prossimo candidato
del centrosinistra alla presidenza del consiglio, si direbbe. Ebbene,
questa evenienza attualmente è fortemente messa in discussione dal fatto
che nessuno sa con certezza quale sarà la legge elettorale
con cui si andrà al voto. Questione non di poco conto, se si considera
che da essa dipenderà la possibilità o meno che una delle forze in campo
avrà una maggioranza sicura nel prossimo parlamento, dunque che uno dei
candidati alle primarie potrà assurgere alla carica di primo ministro.
Con una soglia superiore al 40% per il premio di maggioranza, per intenderci, sarà più plausibile un Monti-bis
che un gabinetto Bersani. Ecco perché sono in molti a dire in queste
ore che questa competizione servirà sicuramente a decidere chi comanda
nel Pd, poi, ma solo a determinate condizioni, a stabilire chi dei
contendenti potrebbe andare a Palazzo Chigi.
Secondo. Dando anche per scontato che uno dei cinque competitori sarà il
prossimo presidente del consiglio, c'è una questione molto più
dirimente che spiega il mio assunto iniziale: il provincialismo ed il politicantismo
che segnano il profilo di costoro. Come, del resto, di tutta la classe
politica italiana del momento, che briga quotidianamente per salvare se
stessa, i propri privilegi, mentre altrove si decidono i destini della
nazione.
È ormai chiaro che una serie di meccanismi, derivanti dalla
sottoscrizione di trattati internazionali, impongono al nostro paese
delle linee di condotta in materia economica e di finanza pubblica alle
quali non si può derogare, a meno che non li si metta formalmente in
discussione, sciogliendo i patti che si sono stipulati. L'Italia, come
gli altri paesi dell'Unione, ha sottoscritto e ratificato trattati
da cui discendono meccanismi di controllo sulle nostre scelte di
politica economica, impegni finanziari verso fondi transnazionali,
obbligazioni in tema di riduzione della spesa sociale e di pareggio di
bilancio.
Ebbene, in un confronto tra aspiranti presidenti del consiglio è
ammissibile che non si sentano parole, espressioni o acronimi come
Fiscal Compact, Meccanismo Europeo di Stabilità (MES), Patto di
Stabilità e Crascita, Clausole di Azione Collettiva (CAC), ecc.?
Eppure, come ci insegnano il caso greco, quello spagnolo e portoghese,
proprio il nostro, quello italiano, ed altri ancora, i vincoli di
compatibilità economico-finanziaria con le direttive europee
costituiscono il principale fattore di influenza delle nostre scelte di
politica economica e finanziaria per i prossimi anni.
Facciamo un esempio: sottoscrivendo e ratificando il trattato sul Mes,
il nuovo fondo per la stabilità finanziaria dell'Unione, l'Italia si è
impegnata a corrispondere alle casse del neonato organismo, anche
attraverso l'emissione di nuovi titoli di stato, la cifra di
125.395.900.000di Euro in cinque anni.
Un esborso che comporterà un aumento del debito pubblico e ancora più rigore e tagli alla spesa sociale.
È plausibile che non si parli di queste cose? No, evidentemente.
Ma c'è una spiegazione. In Europa si è determinata un'inedita forma di
divisione del lavoro: da un lato tecnostrutture anonime che esercitano
il potere reale, dall'altra una schiera di burattini
che hanno il compito di puntellare la finzione della democrazia
rappresentativa. In tutto ciò sta la surrealtà del confronto politico
nel nostro paese. Primarie accluse.
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