di CLAUDIO ROMITI
Ho seguito di persona il comizio di chiusura, svoltosi in una grande sala di Perugia stracolma di persone,
di Matteo Renzi, nell’antivigilia delle primarie del centro-sinistra.
Ebbene, pur non aspettandomi dal giovane e rampante avversario di
Bersani un discorso reaganiano sul piano dell’epistemologia politica,
pensavo che almeno sul tema dell’eccesso di spesa pubblica e di tasse
dicesse qualcosa, se non altro per confermare in dirittura d’arrivo
l’intenzione di rivolgersi ai delusi del centro-destra. Invece, al di là
della solita fuffa basata sul classico libro dei sogni, il sindaco di
Firenze ha lanciato l’ennesimo messaggio politicista e costruttivista –
con il quale generazioni di eletti hanno fatto credere al popolo che
attraverso la politica si potesse risolvere qualunque problema-,
sostenuto dai due pilastri che reggono l’intera scomessa renziana: la
rottamazione ed il nuovismo giovanilista. In buona sostanza, la
direzione indicata dal politico fiorentino non implica un pur minimo
alleggerimento dello Stato, della spesa e di una tassazione folle.
Niente di tutto questo. Egli, al contrario, ha
invitato il popolo ad investirlo del ruolo di candidato premier
promettendo in soldoni di ottenere, sempre attraverso gli strumenti
principali del sistema politico-burocratico, risultati assolutamente
migliori rispetto agli uomini che lo hanno preceduto e che, a causa del
loro fallimento, andrebbero rottamati. E così, ad esempio, parlando del
tema spinoso della scuola pubblica, Renzi ha teorizzato l’introduzione
della meritocrazia all’interno dell’immenso stipendificio che chiamiamo
pubblica istruzione, prevedendo una retribuzione differenziata dei
docenti a seconda dell’impegno e delle capacità dimostrate. Ciò senza
toccare di una virgola un sistema scolastico privo di concorrenza e
fondato sul valore legale del titolo di studio e sul monopolio dei
programmi ministeriali. Ma, al pari di altri settori dominati dalla mano
pubblica, il rottamatore nazionale ritiene che cambiando semplicemente
gli uomini che occupano la stanza dei bottoni, eventualmente con persone
vergini sul piano dell’investitura popolare, si possa miracolosamente
trasformare il Paese dei carrozzoni improduttivi, caratterizzato da una
spesa pubblica da regime sovietico, in un fantastico regno
dell’efficienza e del benessere per tutti. Ed è proprio questo aspetto
che mi ha molto colpito nell’approccio politico di Metteo Renzi. Ovvero
la riproposizione con altri termini della storica truffa collettiva
operata per decenni dai professionisti della politica, secondo cui il
governo di una nazione sarebbe costituito da una sorta di sofisticato
macchinario composto da leve e pulsanti da utilizzare con bravura e
maestria. Quando, al contrario, si dovrebbe esser oramai compreso che la
stessa azione politica, soprattutto quando non ha limiti nelle
competenze di controllo e di spesa, si basa essenzialmente nella
gestione del proprio consenso utilizzando senza scrupoli i soldi degli
altri.
Una formula, quest’ultima, assolutamente fallimentare la quale,
vista l’entità drammatica dell’indebitamento pubblico ai vari livelli,
non può trovare un valido contrappeso in un giovanotto che propone di
cambiare le facce senza cambiare sistema.
Dato che il problema non è
rappresentato dagli uomini che occupano la citata stanza dei bottoni,
bensì dall’eccesso evidente di competenze e attribuzioni che
quest’ultima comporta, la ricetta giusta passa per un deciso
ridimesionamento della stessa. Ma per farlo di vuole qualcosa di più che
un abile venditore di sogni come Renzi il quale mostra di padroneggiare con molta abilità la
famosa legge di mercato basata sulla sottrazione dell’offerta. Per
estirpare il cancro di uno statalismo assistenzialista che ci sta
mandando rapidamente in malora le illusioni non bastano.
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