martedì 18 marzo 2008

LUIGI EiNAUDI

[…]
Chi propugna l’idea dell’albo [dei giornalisti] in realtà vuole conseguire un fine tutto diverso. Creare un corpo, chiuso od aperto, in cui vi siano giudici e giudicabili, in cui vi siano giornalisti i quali si pronunciano sulla dignità od indegnità civile politica o morale di altri giornalisti. Qui il discorso è diverso; ma qui occorre porre ben chiaro un principio, il quale non può essere violato senza offendere i diritti essenziali della persona umana. […]
Giudice della dignità o indegnità del giornalista non può essere il giornalista, neppure se eletto membro del consiglio dell’ordine od altrimenti chiamato a dar sentenza sui colleghi. In una professione nella quale tutti, tutti gli uomini viventi senza eccezione alcuna, possono essere chiamati a far parte per un’ora o per un anno o per tutta la vita […] che cosa significa un tribunale di pari? Null’altro che uno strumento fazioso per impedire agli avversari, agli antipatici, ai giovani, agli sconosciuti l’espressione libera del pensiero; null’altro che un mezzo per ripetere, forse inconsapevolmente, l’eterno tentativo di limitare il numero degli iscritti alla professione nell’ingenua persuasione che ciò valga a dar più lavoro agli arrivati, idea falsa sempre in ogni campo e falsissima nella stampa quotidiana, dove l’idea crea i lettori, dove i lettori non sono una quantità fissa, ma variabilissima, che cresce o scema a seconda di chi parla ai lettori.[…]
L’albo obbligatorio è immorale, perché tende a porre un limite a quel che limiti non ha e non dovrebbe avere, alla libera espressione del pensiero. Ammettere il principio dell’albo obbligatorio sarebbe un risuscitare i peggiori istituti delle caste e delle corporazioni chiuse, prone ai voleri dei tiranni e nemiche acerrime dei giovani, dei ribelli, dei non-conformisti.
Luigi Einaudi, “Albi di giornalisti” in: “Il Risorgimento liberale”, 12 dicembre 1945, in: L. Einaudi, Il Buongoverno, Laterza, Bari, 1955, pp. 595-597.

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