giovedì 29 maggio 2008

LA RESPONSABILITA' DEL POLITICO

Su Repubblica di oggi vi è la foto di un uomo di mezza età che è prostrato in ginocchio, fa una smorfia di paura: è Jiang Guohua, boss comunista a Mianzhu, una delle cittadine devastate dal terremoto nel Sichuan. Due mamme gli urlano in faccia la loro rabbia, mostrando le fotografie dei loro figli uccisi sotto le macerie di una scuola, crollata il 12 maggio. E' una delle sei scuole schiantate in un attimo dal sisma. Costruzioni fragilissime, sotto accusa per non aver rispettato le regole antisismiche.
Il boss della nomenklatura cinese implora di interrompere la protesta, si sottomette simbolicamente, di fatto chiede perdono. La scena fissata nella foto avviene dopo i funerali e descrive una situazione senza precedenti, un segnale di grave difficoltà per un regime colpevole di aver ignorato norme fondamentali per la sicurezza dei cittadini.
Fino a poche settimane fa il capo del partito di Mianzhu non avrebbe degnato di attenzione le donne del popolo. Sarebbe sfilato a gran velocità in mezzo a loro su un'auto nera di servizio e in caso di protesta avrebbe scatenato contro la folla i reparti della polizia antisommossa.
Ma ora l'autorità vacilla di fronte ai contraccolpi politici del terremoto. Quel gerarca in ginocchio è l'immagine di un'umiliazione inaudita.
Sono diecimila i bambini morti, e da diversi giorni ogni funerale di massa si trasforma in una manifestazione di protesta. I genitori sfilano in corteo agitando le foto delle vittime e urlando le responsabilità dei governanti.
La strage dei bambini rivela il volto feroce della corruzione, il prezzo di sangue pagato dal popolo cinese per l'autoritarismo di chi governa. Ma il tempo passa, il bilancio delle vittime continua a crescere (è ormai a quota 80.000), cinque milioni di terremotati senza case sono un esercito di reclute potenziali per la protesta.
In Italia abbiamo vissuto e viviamo momenti simili (dalle stragi senza colpevoli degli anni '70 ai terremoti senza risposte degli anni '80, sino all'attuale tragedia della Campania), per cui possiamo comprendere cosa significhi. Ma non abbiamo mai visto un politico mettersi in ginocchio per chiedere perdono: immaginatevi Bassolino o la Iervolino strisciare per piazza Plebiscito!
Presto in Cina qualche funzionario di partito pagherà con la propria vita le responsabilità di tanti e qualche papavero del regime sarà deposto ed incarcerato. In Italia - la storia c'insegna - non paga mai nessuno.

mercoledì 28 maggio 2008

Il nucleare manda avanti il mondo

E' ormai accertato che negli ultimi anni le rinnovabili hanno superato il nucleare: da statistiche ufficiali relative al periodo 2003-2007 ed in previsione dal 2008 al 2012 la potenza addizionale per tecnologia delle fonti di energia pulita (eolico e solare) rispetto alla nucleare è in rapporto da uno a quattro e nel tempo il gap sarà sempre maggiore sino a raggoungere il rapporto 1/10.
Vuol dire che le centrali nucleari saranno man mano dismesse e da anni non se ne costruiscono più. Sono costose, poco efficienti, altamente inquinanti.
Dal blog di Daniele Luttazzi vi leggo un suggerimento di un lettore informato:
"Ciao a tutti.Sono un ingegnere e mi occupo di energia.Un piccolo suggerimento per coloro i quali, trovandosi faccia a faccia con il pragmatico impreditorialoide di turno, si sentiranno dire: "Il nucleare è una scelta indispensabile se vogliamo rimanere al passo con l'Europa","Il nucleare manda avanti il mondo" o altre amenità del genere. Secondo me potete rispondere almeno in quattro modi diversi:
1) "Il mondo va in un'altra direzione: nel 2007 le nuove installazioni di impianti eolici hanno superato, in termini di potenza, le nuove centrali nucleari.Il futuro è nel sole e nel vento, il nucleare sta diventando il passato" (le girandole potranno non piacere a tutti ma hanno l'indubbio vantaggio di non rischiare di far nascere bambini con arti mancanti)
2) "Le scorie (radioattive!!!) vanno messe da qualche parte, e se devo scommettere, saranno più vicine a casa tua che a quella del Pres del Cons"
3) Come conferma Rubbia, "statisticamente l'incidente è possibile, e ne basta uno solo......e siamo in Italia........"
4) ( Citando non ricordo bene chi.... :-)) ) Ciucciami il cazzo"

AMNESTY INTERNATIONAL

In occasione del sessantesimo anniversario della Dichiarazione universale dei diritti umani, Amnesty International stila la lista delle violazioni commesse nel mondo nel corso del 2007. Questi alcuni dei dati forniti da Amnesty in occasione della presentazione del Rapporto 2008:
- 1252: le condanne a morte eseguite in 24 Paesi;
- 81: i Paesi in cui sono stati documentati casi di tortura o altri trattamenti crudeli, inumani e degradanti;
- 23: i Paesi in cui sono state evidenziati leggi discriminatorie nei confronti delle donne;
- 15: i Paesi in cui sono state evidenziati leggi discriminatorie nei confronti dei migranti;
- 14: i Paesi in cui sono state evidenziati leggi discriminatorie nei confronti delle minoranze;
- 600: le persone detenute senza accusa, processo o revisione giudiziaria nella base aerea statunitense di Bagram, in Afghanistan;
- 25.000: le persone detenute dalla Forza multinazionale in Iraq;
- 54: i Paesi in cui sono stati riscontrati procedimenti giudiziari iniqui;
- 270: le persone ancora detenute nella base Usa di Guantanamo Bay dal 2002 senza accusa né procedimento legale corretto.
- 550: le postazioni militari e altri blocchi imposti da Israele che hanno limitato o impedito il movimento dei palestinesi all'interno della Cisgiordania;
- 45: i Paesi in cui sono stati registrati "prigionieri di coscienza";
- 77: i Paesi in cui sono state riscontrate leggi limitative della libertà di espressione e di stampa;
- 700: i "prigionieri di coscienza" ancora in carcere alla fine del 2007 in Birmania, tra le migliaia di persone arrestate durante la repressione delle manifestazioni pacifiche di agosto e settembre; - 39: i sindacalisti arrestati assassinati in Colombia; nei primi mesi del 2008 i morti sono già stati 22.
- 14% della popolazione del Malawi affetta da Hiv/Aids e solo il 3% di essa ha accesso ai farmaci anti-retrovirali gratuiti; un milione di bambini reso orfano per cause mortali collegate al virus.

venerdì 23 maggio 2008

GLI INCENERITORI

“Nelle popolazioni che vivono in prossimità di impianti di incenerimento dei rifiuti è stato riscontrato un aumento dei casi di cancro dal 6 al 20 per cento. Lo dice una ricerca, resa pubblica dall’istituto statale di sorveglianza sanitaria francese, l’ultima delle 435 ricerche consultabili presso la biblioteca scientifica internazionale Pub Med (www.ncbi.nim.nih.gov) che rilevano danni alla salute causati dai termovalorizzatori per le loro emissioni di diossina, prodotta dalla combustione della plastica insieme ad altri materiali. Questa molecola deve la sua micidiale azione alla capacità di concentrarsi negli organismi viventi e di penetrare nelle cellule. Qui va a “inceppare” uno dei principali meccanismi di controllo del Dna, scatenando le alterazioni dei geni che poi portano il cancro e le malformazioni neonatali.”

Una giustizia a pezzi in un Paese spaccato

«Bisogna far sistema». Questa ricetta, con cui in genere le economie decollano e i paesi si sviluppano, trova da noi un’applicazione tipicamente all’italiana. Consiste nella capacità inesauribile di stabilire reti di complicità e connivenze tra politici, esponenti professionali e istituzionali, faccendieri e malavitosi, con un unico scopo: saccheggiare i beni e le risorse pubbliche. Anche grazie alle rivelazioni emerse dalle inchieste più recenti, il sistema meridionale del malaffare, dei partitifamiglia – formula di grande successo in Sicilia, Calabria, Basilicata, Campania, Puglia, Molise – sono macchine oleatissime con cui si smistano i fondi nazionali ed europei, si assegnano gli appalti, si decide la fortuna o la sfortuna nelle carriere pubbliche, a cominciare dalla magistratura. E mette in primo piano le vere forze che «fanno girare» il paese, condannandolo all’inefficienza dei servizi, agli scempi ambientali e al declino inarrestabile della sua economia. Di queste forze, dopo le scoperte pionieristiche del pool di Milano, Roba Nostra offre la radiografia più aggiornata. Nuovi capibastone politici, tangentisti della prima e della seconda Repubblica, massoni riuniti in fantasiose logge, affaristi devoti della Compagnia delle Opere, clan familiari che sperimentano le tecniche più spietate per garantirsi il controllo di tutto ciò che è pubblico in intere regioni: dalla sanità all’istruzione, ai cosiddetti incentivi per lo sviluppo. E' la saga italiana delle «mani sporche».
Ma chi pensa che farsi i fatti propri e non aver mai messo piede in un tribunale basti a non scontare l'inefficienza del sistema giudiziario italiano si sbaglia. Il crac della giustizia insegue tutti i cittadini fin dentro casa e invade la loro vita .
Un sistema crollato. Un viaggio capillare da Nord a Sud nelle aule giudiziarie, nei corridoi dei tribunali, nei bilanci ministeriali, nel lavoro di magistrati, avvocati, del personale amministrativo, nella perversione e nella proliferazione di leggi che sono fatte ad arte per aggravare questo stato di cose. Viviamo in uno dei Paesi con la più elevata spesa pubblica nel settore della giustizia, una macchina giudiziaria che consuma più di 7,7 miliardi di euro l'anno, eppure nei tribunali mancano le penne, la carta, i computer, l'inchiostro per le stampanti, le fotocopiatrici. Abbiamo lo stesso numero di giudici, eppure in Italia i processi durano più a lungo che in ogni altro Paese d'Europa. Una media di cinque anni per decidere se qualcuno è colpevole o innocente. Sette anni e mezzo per un divorzio. Due anni per un licenziamento in prima istanza. Otto per dare ragione o torto in una causa civile.
Una lentezza e un'inefficienza che il cittadino paga anche quando stipula un mutuo o accende un conto in banca a condizioni più onerose che nel resto d'Europa; quando si imbatte nelle difficoltà di recuperare un credito; quando subisce un infortunio sul lavoro; quando sconta l'inefficienza delle condanne. Basti pensare che ogni anno nelle carceri italiane entrano 90.000 persone e ne escono 88.000 e che a Milano due mani mutilate sul lavoro valgono 200.000 euro meno che a Roma.

giovedì 22 maggio 2008

ARIDATECE LA DICI

La raccomandazione in Sicilia sembra diventata come il peccato originale: ti macchia sin dalla nascita. Appena una persona entra in contatto con le istituzioni, deve subito trovare una spintarella. A partire dall’iscrizione all’asilo. Il nuovo record nell’Italia delle scorciatoie è in una richiesta schedata secondo i dati anagrafici dell’interessato. Età? Poco meno di cinque anni. Favore domandato: ottenere la preiscrizione in una scuola materna, dove dominano le liste d’attesa. Il tutto inoltrato all'attenzione dell’uomo più potente della Provincia di Catania, Raffaele Lombardo, appena diventato governatore della Sicilia.
Su e-mule un giornalista siciliano ha scoperto questo file impressionante, dove sono schedate centinaia e centinaia di richieste di favori: chi invoca un posto di lavoro, chi una promozione, chi un trasferimento e persino chi, situazione molto drammatica, un trapianto di rene. Un archivio sistematico, destinato a trasformarsi in pacchetti di voti.
Alle prime anticipazioni, diffuse dal “Corriere della Sera”, Lombardo ha reagito incaricando l’avvocato Antonio Fiumefreddo di querelare. Per il legale si tratta «dell’ultimo tentativo, in ordine di tempo, di screditare l’immagine e la dignità di Lombardo». Nulla, però, viene detto sulla veridicità di quei file, nonostante l’invito rivolto alla magistratura di fare chiarezza sulla vicenda. I dati spaziano nell’arco temporale che va dal 2006 all’inizio del 2007 e in quell’archivio c’è un po’ di tutto. Funzionari della Dia, finanzieri e carabinieri che chiedono il trasferimento a Catania, giovani precari in cerca di un posto nei call center. C’è il giardiniere che aspira a cambiare mansione e i giovani laureati in economia e commercio che devono superare l’esame da commercialista. Nelle loro schede sono riportati anche i nomi degli esaminatori. Numerose anche le segnalazioni nel settore sanità.
Complessivamente, alcune centinaia le suppliche per la ricerca di un posto di lavoro o di un qualche “accomodamento”. Il criterio di catalogazione è ferreo: per ogni scheda viene riportato il nominativo segnalato, il recapito telefonico, la qualifica professionale o gli studi. Nelle colonne a destra vengono riportati i nomi dei responsabili del “procedimento raccomandativo” e l’esito dello stesso. In molti casi viene riportata la dizione “negativo”. Ma chi sono gli uomini e le donne che, prendendo in carico l’esito dei vari “procedimenti”, avrebbero portato acqua al mulino elettorale di Lombardo? Si va da una nutrita schiera di deputati regionali di ogni partito agli ex manager regionali (tra loro anche Elio Rossitto, ex consulente dello scomparso Rino Nicolosi, presidente della Sicilia alla fine degli anni Ottanta), per arrivare a un pittoresco quanto misterioso “Gino dei polli”.
Insomma, adesso ci sono i computer ma rimane valida una sola regola: se vogliamo che tutto resti come è, bisogna che tutto cambi. Via Cuffaro, ecco Lombardo con il suo partito federalista meridionale Mpa: i metodi però non sembrano affatto nuovi.

IL NUCLEARE OGGI

Nel 1959 fu costruito il primo reattore di ricerca ad Ispra (Varese). Gli investimenti ed il favore dell'opinione pubblica nei confronti dell' iniziativa furono notevoli tanto che nel 1966 si raggiunse una produzione di 3,9 miliardi di kWh: l'Italia era il terzo produttore al mondo di energia elettrica di origine nucleare. Il ciclo espansivo si chiuderà con l' attivazione della centrale di Caorso (Piacenza) nel 1980.
Ma fu nel 1986 con l' esplosione di un reattore della centrale nucleare di Chernobyl che nacque un vero e proprio atteggiamento critico nei confronti dell' energia nucleare. In Italia fu bloccata l' attuazione di una parte del Piano Energetico Nazionale che prevedeva l'apertura di cantieri per nuove centrali nucleari.
L'8 novembre 1987 si svolsero tre referendum sul nucleare: la maggioranza degli italiani che andò alle urne votò per il «Sì», abrogando una serie di norme e orientando le successive scelte dell' Italia in ambito energetico verso una direzione di sfavore nei confronti del nucleare. I 3 quesiti riguardavano normative relative alla localizzazione degli impianti, l'abrogazione del compenso ai comuni che ospitavano centrali nucleari o a carbone, e il divieto all’Enel, allora azienda di Stato, di partecipare ai progetti nucleari anche all’estero. Comunque sia con il referendum abrogativo del 1987 è stato «di fatto» sancito l'abbandono da parte dell' Italia del ricorso al nucleare come forma di approvvigionamento energetico.
Resta ancora da completare il totale smantellamento, la rimozione e la decontaminazione di strutture e componenti degli impianti nucleari in Italia. Sia delle centrali nucleari ex-Enel, sia degli impianti del ciclo del combustibile ex-Enea: il governo ha affidato il compito dello smantellamento alla Sogin.
L'energia nucleare è indispensabile a livello internazionale, ma in Italia è difficile "ripartire da zero" perché il referendum di 21 anni fa e la politica che ne è scaturita hanno cancellato le infrastrutture materiali e immateriali che ora renderebbero possibile una ripresa nell'immediato del nucleare. A sottolinearlo è Adolfo Battaglia, ministro dell'Industria ai tempi del referendum dell' '87, strenuo difensore dell'energia atomica. "Una scelta seria per il nucleare passa per una serie di fattori: prima di tutto l'esistenza di una classe tecnica formata negli anni precedenti e che invece in Italia è scomparsa; poi la presenza di istituti di controllo che oggi non ci sono più; infine il raggiungimento di intese internazionali". "Una ripresa del nucleare è indispensabile nel mondo ma passa per scelte internazionali comuni. E' a questo che l'Italia deve dedicarsi. Perché è necessaria una politica di intese europee ed internazionali, ad esempio per la scelta dei reattori o per la soluzione del problema delle scorie". Per il referendum e "per le posizioni dei partiti che ne sono conseguite", in Italia "non abbiamo più niente".
Oltre millecinquecento tra docenti universitari e ricercatori hanno invece sottoscritto un appello "ai candidati alla guida del Paese nelle elezioni politiche 2008" per chiedere che venga messa da parte tanto la tentazione del nucleare, quanto il ritorno al carbone. "Riteniamo che l’opzione nucleare non sia opportuna per molti motivi: necessità di enormi finanziamenti pubblici, insicurezza intrinseca della filiera tecnologica, difficoltà a reperire depositi sicuri per le scorie radioattive, stretta connessione tra nucleare civile e militare, esposizione ad atti di terrorismo, aumento delle disuguaglianze tra paesi tecnologicamente avanzati e paesi poveri, scarsità di combustibili nucleari. Sollecitiamo pertanto chi guiderà il prossimo Governo a sviluppare l'uso delle fonti di energia rinnovabile: eolica, geotermica, idroelettrica e, in particolare, solare nelle varie forme in cui può essere convertita: energia termica ed elettrica, combustibili artificiali, biomasse. Il Sole, infatti, è una stazione di servizio inesauribile che in un anno invia sulla Terra una quantità di energia pari a diecimila volte il consumo mondiale..."

NON CI SI PUO' FIDARE

Una piccola legge «ad personam», cioè tesa a favorire il presidente del Consiglio, era stata inserita nel decreto legge per la sicurezza, dunque pronta ad entrare in vigore subito dopo l'approvazione da parte del Consiglio dei ministri di ieri. Prevedeva la possibilità a chi è imputato per reati commessi prima del 31 dicembre 2001 di sospendere il processo per due mesi in modo da valutare se accedere al patteggiamento.
Silvio Berlusconi è sotto processo a Milano con l’accusa di corruzione dell'avvocato David Mills, anche se Antonio Ghedini, legale del premier e, quale parlamentare Pdl, coautore della norma, ha smentito che il Cavaliere miri al patteggiamento.
La leggina è poi scomparsa dalla versione definitiva del decreto sicurezza, ma è comparso qualcos'altro, e chi si domandava se esistesse ancora col nuovo governo Berlusconi un problema di conflitto d’interessi, ha trovato la risposta.
E' un solo articolo diviso in cinque comma che, all’interno di un decreto salvainfrazioni, punta ad evitare il deferimento dell'Italia davanti alla Corte di Giustizia europea nell'ambito della procedura avviata dalla Commissione di Bruxelles nel 2006 sulla compatibilità di alcune norme della legge Gasparri con le direttive comunitarie. Con l’emendamento si modifica il sistema delle licenze tv, sostituito con un meccanismo di autorizzazione generale, sufficiente a giustificare l'attuale compravendita delle frequenze. Il testo stabilisce inoltre che chi ne ha titolo può continuare a trasmettere fino al termine previsto per il passaggio definitivo al digitale terrestre (fine 2012). Questa mossa salverebbe praticamente Rete 4 dall’andare sul satellite ed impedirebbe ad Europa 7 di prenderne il posto, proteggendo così una delle tv di Mediaset contro una concorrente. Si tratterebbe di una violazione delle più basilari regole di mercato ad opera di una maggioranza il cui leader è fondatore e grande azionista di quel gruppo televisivo. «L'emendamento del governo sulle frequenze radiotelevisive non ha i requisiti di necessità e urgenza che la Costituzione richiede - afferma Roberto Zaccaria, deputato del Pd - ma risponde alle concrete esigenze del gruppo Mediaset. Da quando si è aperta la procedura di infrazione europea contro la legge Gasparri per limiti alla concorrenza il titolo Mediaset sta perdendo vistosamente in Borsa (-35% nel 2007). Il tentativo di eludere frettolosamente questa partita, tra l'altro in controtendenza rispetto alle indicazioni della Corte di giustizia europea, risponde ad una logica del tutto estranea al confronto parlamentare. Non sorprende quindi che l'emendamento, presentato in tutta fretta, sia stato difeso prima ancora che dal sottosegretario Romani, dal presidente di Mediaset Confalonieri, nel corso di una conferenza stampa a Cannes».
Critiche anche dall'ex ministro delle Comunicazioni, Paolo Gentiloni (Pd): «Non vorrei che ci fosse un limite invalicabile oltre il quale non valgono tutti i discorsi sul confronto. E che quel limite invalicabile fosse segnato dal cartello 'proprietà privata'. Mi auguro che non sia così». Per il leader dell'Idv, Antonio Di Pietro, si tratta di una norma «criminogena per salvare Rete4. Ancora una volta Berlusconi si fa una legge a suo uso e consumo». Beppe Giulietti definisce l'emendamento una «norma ad aziendam che difficilmente potrà essere ritirata, perché gli impegni presi sia a livello politico che a livello familiare difficilmente potranno non essere onorati». Anche l'Udc rivolge un appello all'esecutivo a ritirare l'emendamento.

mercoledì 21 maggio 2008

BREVIARIO SU BERLUSCONI

Nel gennaio del 1994 Berlusconi, ormai orfano dei partiti travolti dallo scandalo di Tangentopoli, fonda Forza Italia ed entra personalmente in politica. «Se non lo faccio, mi arrestano e fallisco per debiti », dice in giro. Si proclama seguace fervente di Mani Pulite, mette insieme An e la Lega (la prima alleata al Sud, la seconda al Nord) nel Polo delle Libertà, vince le elezioni del 27 marzo, grazie alle opposizioni di centro e di sinistra, che corrono divise. Tenta di avere i pm Davigo e Di Pietro nel suo governo, ma i due magistrati rifiutano e lui ripiega su personaggi come Dini e Previti. Il Berlusconi-1 ha vita breve: vara il decreto Biondi per salvare dall’arresto il fratello Paolo e alcuni dirigenti Fininvest indagati per corruzione della Guardia di finanza, approva il condono fiscale, edilizio e ambientale.
Il 21 novembre viene coinvolto personalmente nell’inchiesta sulle tangenti alla Guardia di finanza: racconta di aver avuto un avviso di garanzia a Napoli durante il G8 e di averlo scoperto leggendo il Corriere della Sera: non era un avviso di garanzia, bensì un invito a comparire per spiegare un suo incontro con l’avvocato Fininvest Massimo Maria Berruti al fine di depistare le indagini sulle mazzette del gruppo alla Guardia di finanza; l’invito non gli fu recapitato a Napoli, ove non c’era alcun vertice del G8, ma un convegno internazionale sulla criminalità; Berlusconi non seppe la notizia dell’indagine dal «Corriere della Sera», ma la sera prima dai CC inviati dal pool di Milano a Roma, che gli lessero al telefono il contenuto dell’incartamento. Il 22 dicembre è costretto a dimettersi, dopo la mozione di sfiducia presentata dalla Lega Nord contro la riforma delle pensioni.
La vicenda giudiziaria non c’entra nulla, ma lui racconta che la colpa è dei giudici e comincia a gridare al "ribaltone". In realtà non c’è alcun ribaltone: il successore l’ha indicato lui nel suo ministro del Tesoro, Lamberto Dini, salvo poi votare contro il governo istituzionale, sostenuto così soltanto dalla Lega e dal centrosinistra.
Nel 1996, indagato anche per mafia e per corruzione giudiziaria insieme a Previti (dopo l’arresto del giudice Squillante per corruzione da parte della Fininvest, in seguito alle rivelazioni di Stefania Ariosto), Berlusconi perde le elezioni e finisce all’opposizione per cinque anni. Ma il centrosinistra, diviso e rissoso, lo invita a riscrivere la Costituzione nella Bicamerale, evita di risolvere l'annoso conflitto d’interessi e di varare una legge antitrust sulle tv e approva tutte le leggi contro la giustizia previste nel suo programma (di Berlusconi, non del centrosinistra).
Lui alla fine fa saltare la Bicamerale, fa pace con Bossi e rivince le elezioni nel 2001, tornando al governo per cinque anni. Cinque anni di menzogne, di figuracce internazionali, di leggi ad personam, di condoni su condoni, di epurazioni e censure televisive, ma anche di malgoverno in ogni settore della vita pubblica, che lo trascinano alla sconfitta nel 2006.
Questa volta al centrosinistra bastano due anni di baruffe, errori e omissioni per riportare Berlusconi in cima ai sondaggi per la sua quinta candidatura a Palazzo Chigi. Lui si prepara alla terza rinascita con la solita fiumana di bugie. Raccoglierle tutte è impossibile (si rimanda a Le mille balle blu, Rizzoli-Bur, Milano 2006), ma si riportano le ultime in ordine di tempo, dall’inizio della campagna elettorale. Per esempio a Tv7, dinanzi a uno Gianni Riotta, il 14 febbraio 2008: «Mi sono battuto perché Enzo Biagi non lasciasse la Rai, ma alla fine ha prevalso in Biagi il desiderio di essere liquidato con un compenso molto elevato». Ancora: «Il nostro programma economico è già stato presentato al commissario europeo Almunia, il nostro ministro Tremonti ha avuto un colloquio con lui e penso che sarà condiviso». Sbigottita la replica di Joaquin Almunia: «Non ho ricevuto assolutamente nulla e quindi non posso aver approvato nulla» (21 febbraio 2008). Balle anche il 12 febbraio a Porta a Porta. «Nel 1994 dovetti scendere in campo dopo aver tentato di mettere d’accordo Bossi e Zaccagnini» (ma era Martinazzoli, non Zaccagnini, che risulta morto nel 1989). «Contro i clandestini chiuderò le frontiere» (di Schengen?). «La lotta di Prodi e Visco all’evasione ha spaventato gl’italiani» (gli evasori?). «Anche a me danno fastidio quelli che dichiarano meno al fisco e poi fanno il condono, perché se tutti pagassero le tasse anch’io ne pagherei di meno» (ma sia lui che Mediaset abbiano usufruito dei condoni approvati dal suo governo, ed egli è imputato anche per evasione fiscale). «Sono arrivato, con le mie aziende, ad avere 56mila collaboratori» (ma i borderò della Fininvest dei periodi d’oro arrivavano a 28mila). «Non si può non fare il traforo del Frejus» (già fatto da 130 anni). «I comunisti vogliono abolire la moneta» (?). «Come presidente del Milan, ho vinto più di tutti nella storia del calcio: addirittura il doppio di Santiago Bernabeu» (l’indomani La Gazzetta dello Sport dimostra che Bernabeu, presidente del Real Madrid, vinse il doppio dei trofei vinti dal Milan). «Io mi sento 35 anni, ma sto lavorando con don Verzè per portare l’età media degli italiani a 120 anni.»

martedì 20 maggio 2008

LA FINE DI TRAVAGLIO

da "The Guardian"
Non si é dovuto attendere molto per avvertire l'effetto della vittoria di Berlusconi sui media italiani. Domenica il presentatore di un talk show era in piedi davanti alle telecamere della RAI, la televisione pubblica italiana, chiedendo scusa alla nazione. "Offendere non é nel mio stile", Fabio Fazio ha detto agli ascoltatori, "quindi quando succede, posso solo scusarmi". É stata una scena degna della grande rivoluzione culturale.
Fazio si stava riferendo ad un episodio della sera precedente, avvenuto mentre intervistava un amico giornalista, Marco Travaglio.
Una delle prime designazioni di Berlusconi dopo essere salito al potere é stata quella del presidente del Senato. E´una posizione chiave in Italia perché é la seconda carica dello Stato, seconda solo al presidente della Repubblica. Se quest'ultimo muore - ed il presidente in carica, Giorgio Napolitano, ha 82 anni- il presidente del Senato diventa il capo dello stato.
La scelta di Berlusconi per questo posto illlustre é ricaduta su Renato Schifani, un avvocato siciliano. Travaglio si chiedeva a voce alta sul perché nessuno dei principali quotidiani avesse menzionato il fatto che Schifani aveva avuto "amicizie con i mafiosi".
C'é stata, naturalmente, la forte protesta della destra. Uno dei ministri di Berlusconi ha parlato di "imboscata indecorosa" al presidente. Un membro del parlamento ha detto (significativamente) che il premier dovrebbe cacciare Travaglio dalla RAI. Si é anche suggerito che le parole del giornalista facciano parte di una cospirazione.
Ma quello che nessuno degli amici di Schifani ha detto é che le parole di Travaglio siano state false. Ci sono, infatti, due aree controverse nel passato del nuovo presidente del Senato, e se ne é parlato recentemente in due libri, di uno dei quali Travaglio é co-autore.
I libri affermano che, negli anni '80, Schifani era in affari con una compagnia in cui figuravano due uomini piú tardi condannati per mafia. Uno era un vero e proprio "padrino", nella cittá di Villabate. Negli anni '90, il futuro presidente del Senato vinse un contratto per lavorare per le autoritá locali lí, in un momento in cui tutto era nelle grinfie di cosa nostra. Il consiglio municipale fu in seguito sciolto per infiltrazioni mafiose.
Bisogna fare notare che Schifani non é mai stato indagato per nessun reato mafioso, nemmeno lontanamente. In entrambi i casi, il collegamento a cosa nostra dei suoi compagni di affari e delle autoritá locali, rispettivamente, venne alla luce solo dopo il suo coinvolgimento con loro. Non c'é motivo di supporre che Schifani fosse stato a conoscenza delle oscure connessioni di queste persone durante le sue relazioni con loro.
Ma sarebbe comunque opportuno mettere in discussione il suo giudizio, specialmente poiché gli é stata appena assegnata una carica cosí importante. In molti paesi, immagino, il presidente sarebbe stato invitato alla prossima puntata del programma per spiegare come si fosse trovato in contatto con gente di questo tipo. Invece, la RAI si é scusata per averlo offeso.
Schifani, da parte sua, ha detto che le accuse di Travaglio erano basate su "fatti inconsitenti o manipolati, nemmeno degni di generare sospetti", ed ha aggiunto che "qualcuno vuole sabotare il dialogo tra governo e opposizione". Questi suggerimenti sono un altro aspetto di questo bizzarro racconto.
Avrete pensato che l'opposizione di Berlusconi di centro-sinistra abbia colto l'occasione per mettere in imbarazzo il presidente del Consiglio ed il suo team. Neanche lontanamente. Con la sola eccezione di un ex-magistrato anticorruzione, Antonio Di Pietro, si sono tutti schierati con Schifani contro Travaglio. Il capogruppo al Senato del centro-sinistra ha detto che le parole del giornalista erano "inaccettabili" e condannava il fatto che Schifani non fosse stato presente per avere la possibilitá di difendersi.
Stamane l'edittino di Romani, sottosegretario con delega all'informazione, il quale stabilisce che Travaglio "è inammissibile come figura inquadrata in un servizio pubblico" lascia comprendere che anche le sue apparizioni televisive siano prossime alla fine.

venerdì 16 maggio 2008

TRAVAGLIO-D'AVANZO


In ambienti giornalistici s'e' piu' volte affacciata l'ipotesi che D'Avanzo e Bonini (altro giornalista di Repubblica) abbiano fonti direttamente nel mondo degli agenti segreti. Tale "fisiologico" precipitato delle rivalita' tra testate ha registrato un'impennata dopo la scoperta (nel caso Telecom-SISMI) che il giornalista Renato Farina era a "libro paga" del SISMI. Francesco Cossiga, un esperto in materia, ma anche viziato dalla sua pubblica solidarieta' con il capo del SISMI Pollari, ha presentato un'interrogazione parlamentare in cui si chiede se D'Avanzo e Bonini siano col capo della polizia Gianni De Gennaro in rapporto di giornalista-fonte, o se invece dal secondo ai primi vi sia stato passaggio di danaro.
wikipedia
Se così stanno le cose, bisognerebbe capire se l'informazione del D'avanzo è veritiera perchè fornitagli dal SISMI e, in tal caso, se alle parole di Travaglio seguirà la querela annunciata.
E' certo comunque che la circostanza non sposta il giudizio che il popolo informato si è fatto di Schifani e cheda noi fu anticipato il nove maggio scorso.

domenica 11 maggio 2008

1944: EINAUDI

Il prefetto è una lue che fu inoculata nel corpo politico italiano da Napoleone. Gli antichi governi erano, prima della rivoluzione francese, assoluti solo di nome, e di fatto vincolati d'ogni parte, dai senati e dalle camere dei conti o magistrati camerali, gelosissimi del loro potere di rifiutare la registrazione degli editti che, se non registrati, non contavano nulla, dai corpi locali privilegiati, auto-eletti per cooptazione dei membri in carica, dai patti antichi di infeudazione, di dedizione e di annessione, dalle consuetudini immemorabili. Gli stati italiani governavano entro i limiti posti dalle « ibertà» locali, territoriali e professionali. Spesso « le libertà » municipali e regionali erano «privilegi» di ceti, di nobili, di corporazioni artigiane ed erano dannose. Nella furia di strappare i privilegi, la rivoluzione francese distrusse, continuando l'opera iniziata dai Borboni, le libertà locali; e Napoleone, dittatore all'interno, amante dell'ordine, sospettoso, come tutti i tiranni, di ogni forza indipendente, spirituale o temporale, perfezionò l'opera. I governi restaurati trovarono comodo di non restaurare, se non di nome, gli antichi corpi limitatori e conservarono il prefetto napoleonico. L'Italia nuova, preoccupata di rinsaldare le membra disiecta degli antichi ex-stati in un corpo unico, immaginò che il federalismo fosse il nemico ed estese il sistema prefettizio anche a quelle parti d'ltalia, come le province ex-austriache, nelle quali la lue erasi infiltrata con manifestazioni attenuate. Si credette di instaurare libertà e democrazia e si foggiò lo strumento della dittatura.
Democrazia e prefetto repugnano profondamente l'una all'altro. Né in ltalia, né in Francia, né in Spagna, né in Prussia si ebbe mai e non si avrà mai democrazia, finché esisterà il tipo di governo accentrato, del quale è simbolo il prefetto. Coloro i quali parlano di democrazia e di costituente e di volontà popolare e di autodecisione e non si accorgono del prefetto, non sanno quel che si dicono.
Elezioni, libertà di scelta dei rappresentanti, camere, parlamenti, costituenti, ministri responsabili sono una lugubre farsa nei paesi a governo accentrato del tipo napoleonico. Gli uomini di stato anglo-sassoni, i quali invitano i popoli europei a scegliersi la forma di governo da essi preferita, trasportano inconsciamente parole e pensieri propri dei loro paesi a paesi nei quali le medesime parole hanno un significato del tutto diverso. Forse i soli europei del continente, i quali sentendo quelle parole le intendono nel loro significato vero sono, insieme con gli scandinavi, gli svizzeri. Essi sanno che la democrazia comincia dal comune, che è cosa dei cittadini, i quali non solo eleggono i loro consiglieri e sindaci o presidenti o borgomastri, ma da sé, senza intervento e tutela e comando di gente posta fuori del comune od a questo sovrapposta, se lo amministrano, se lo mandano in malora o lo fanno prosperare.
L'auto-governo continua nel cantone, il quale e un vero stato, il quale da sé si fa le sue leggi, se le vota nel suo parlamento e le applica per mezzo dei propri consiglieri di stato, senza uopo di ottenere approvazioni da Berna; e Berna, ossia il governo federale, a sua volta, per le cose di sua competenza, ha un parlamento per deliberare le leggi sue proprie ed un consiglio federale per applicarle ed amministrarle. E tutti questi consessi ed i 25 cantoni e mezzi cantoni e la confederazione hanno così numerosissimi legislatori e centinaia di ministri, grossi e piccoli, tutti eletti, ognuno dei quali attende alle cose proprie, senza vedersi mai tra i piedi il prefetto, ossia la longa manus del ministro o governo più grosso, il quale insegni od ordini il modo di sbrigare le faccende proprie dei ministri più piccoli.
Così pure si usa governare in Inghilterra, con altre formule di parrocchie, borghi, città, contee, regni e principati; così si fa negli Stati Uniti, nelle federazioni canadese, sudafricana, australiana e nella Nuova Zelanda. Nei paesi dove la democrazia non è una vana parola, la gente sbriga da sé le proprie faccende locali senza attendere il permesso dal governo centrale. Così si forma una classe politica numerosa, scelta per via di vagli ripetuti. Non è certo che il vaglio funzioni sempre a perfezione; ma prima di arrivare ad essere consigliere federale o nazionale in Svizzera, o di essere senatore o rappresentante nel congresso nord americano, bisogna essersi fatto conoscere per cariche coperte nei cantoni o negli stati; ed essersi guadagnato una qualche fama di esperto ed onesto amministratore.
La classe politica non si forma da sé né è creata da una elezione generale. Ma si costituisce lentamente dal basso; per scelta fatta da gente che conosce personalmente le persone alle quali delega la amministrazione delle cose locali piccole; e via via quelle delle cose nazionali od inter-statali più grosse.
La classe politica non si forma tuttavia se l'eletto ad amministrare le cose municipali o provinciali o regionali non e pienamente responsabile per l'opera propria. Se qualcuno ha il potere di dare a lui ordini o di annullare il suo operato, l'eletto non è responsabile e non impara ad amministrare. Impara ad ubbidire, intrigare, a raccomandare, a cercare appoggi. Dove non esiste il governo di se stessi e delle cose proprie, in che consiste la democrazia?
Finché esisterà in Italia il prefetto, la deliberazione e l'attuazione non spetteranno al consiglio municipale ed al sindaco, al consiglio provinciale ed al presidente; ma sempre e soltanto al governo centrale, a Roma; o, per parlar più concretamente, al ministro dell'interno. Costui è il vero padrone della vita amministrativa e politica dell'intero stato. Attraverso i suoi organi distaccati, le prefetture, il governo centrale approva o non approva i bilanci comunali e provinciali, ordina l'iscrizione di spese di cui i cittadini farebbero a meno, cancella altre spese, ritarda l'approvazione ed intralcia il funzionamento dei corpi locali.
Chi governa localmente di fatto non è né il sindaco né il consiglio comunale o provinciale; ma il segretario municipale o provinciale. Non a caso egli è stato oramai attruppato tra i funzionari statali. Parve un sopruso della dittatura ed era la logica necessaria deduzione del sistema centralistico. Chi, se non un funzionario statale, può interpretare ed eseguire le leggi, i regolamenti, le circolari, i moduli i quali quotidianamente, attraverso le prefetture, arrivano a fasci da Roma per ordinare il modo di governare ogni più piccola faccenda locale? Se talun cittadino si informa del modo di sbrigare una pratica dipendente da una legge nuova, la risposta è : non sono ancora arrivate le istruzioni, non è ancora compilato il regolamento; lo si aspetta di giorno in giorno. A nessuno viene in mente del ministero, l' idea semplice che l'eletto locale ha il diritto e il dovere di interpretare lui la legge, salvo a rispondere dinnanzi agli elettori della interpretazione data? Che cosa fu e che cosa tornerà ad essere l'eletto del popolo in uno stato burocratico accentrato? Non un legislatore, non un amministratore; ma un tale, il cui ufficio principale è essere bene introdotto nei capoluoghi di provincia presso prefetti, , consiglieri e segretari di prefettura, provveditori agli studi, intendenti di finanza, ed a Roma, presso i ministri, sotto-segretari di stato e, meglio e più, perché di fatto più potenti, presso direttori generali, capidivisione, segretari, vice-segretari ed uscieri dei ministeri. Il malvezzo di non muovere la « pratica » senza una spinta, una raccomandazione non è recente né ha origine dal fascismo. È antico ed è proprio del sistema. Come quel ministro francese, guardando l'orologio, diceva: a quest'ora, nella terza classe di tutti i licei di Francia, i professori spiegano la tal pagina di Cicerone; così si può dire di tutti gli ordini di scuole italiane. Pubbliche o private, elementari o medie od universitarie, tutto dipende da Roma: ordinamento, orari, tasse, nomine degli insegnanti, degli impiegati di segreteria, dei portieri e dei bidelli, ammissioni degli studenti, libri di testo, ordine degli esami, materie insegnate. I fascisti concessero per scherno l'autonomia alle università; ma era logico che nel sistema accentrato le università fossero, come subito ridiventarono, una branca ordinaria dell'amministrazione pubblica; ed era logico che prima del 1922 i deputati elevassero querele contro quelle che essi imprudentemente chiamarono le camorre dei professori di università, i quali erano riusciti, in mezzo secolo di sforzi perseveranti e di costumi anti-accentratori a poco a poco originati dal loro spirito di corpo, a togliere ai ministri ogni potere di scegliere e di trasferire gli insegnanti universitari e quindi ogni possibilità ai deputati di raccomandare e promuovere intriganti politici a cattedre. Agli occhi di un deputato uscito dal suffragio universale ed investito di una frazione della sovranità popolare, ogni resistenza di corpi autonomi, di enti locali, di sindaci decisi a valere la volontà dei loro amministrati appariva camorra, o sopruso, privilegio. La tirannia del centro, la onnipotenza del ministero, attraverso ai prefetti, si converte nella tirannia degli eletti al parlamento. Essi sanno di essere i ministri del domani, sanno che chi di loro diventerà ministro dell'interno, disporrà della leva di comando del paese; sanno che nessun presidente del consiglio può rinunciare ad essere ministro dell'interno se non vuol correre il pericolo di vedere « farsi » le elezioni contro lui dal collega al quale egli abbia avuto la dabbenaggine di abbandonare quel ministero, il quale dispone delle prefetture, delle questure e dei carabinieri; il quale comanda a centinaia di migliaia di funzionari piccoli e grossi, ed attraverso concessioni di sussidi, autorizzazioni di spese, favori di ogni specie adesca e minaccia sindaci, consiglieri, presidenti di opere pie e di enti morali. A volta a volta servo e tiranno dei funzionari che egli ha contribuito a far nominare con le sue raccomandazioni e dalla cui condiscendenza dipende l'esito delle pratiche dei suoi elettori, il deputato diventa un galoppino, il cui tempo più che dai lavori parlamentari è assorbito dalle corse per i ministeri e dallo scrivere lettere di raccomandazione per il sollecito disbrigo delle pratiche dei suoi elettori.
Perciò il delenda Carthago della democrazia liberale è : Via il prefetto! Via con tutti i suoi uffici e le sue dipendenze e le sue ramificazioni! Nulla deve più essere lasciato in piedi di questa macchina centralizzata; nemmeno lo stambugio del portiere. Se lasciamo sopravvivere il portiere, presto accanto a lui sorgerà una fungaia di baracche e di capanne che si trasformeranno nel vecchio aduggiante palazzo del governo. Il prefetto napoleonico se ne deve andare, con le radici, il tronco, i rami e le fronde. Per fortuna, di fatto oggi in Italia l'amministrazione centralizzata è scomparsa. Ha dimostrato di essere il nulla; uno strumento privo di vita propria, del quale il primo avventuriero capitato a buon tiro poteva impadronirsi per manovrarlo a suo piacimento. Non accadrà alcun male, se non ricostruiremo la macchina oramai guasta e marcia. L'unità del paese non è data dai prefetti e dai provveditori agli studi e dagli intendenti di finanza e dai segretari comunali e dalle circolari ed istruzioni ed autorizzazioni romane.
L'unità del paese è fatta dagli italiani i quali imparino, a proprie spese, commettendo spropositi, a governarsi da sé. La vera costituente non si fa in una elezione plebiscitaria, a fin di guerra. Così si creano o si ricostituiscono le tirannie, siano esse di dittatori o di comitati di partiti. Chi vuole affidare il paese a qualche altro saltimbanco, lasci sopravvivere la macchina accentrata e faccia da questa e dai comitati eleggere una costituente. Chi vuole che gli italiani governino se stessi, faccia invece subito eleggere i consigli municipali, unico corpo rimasto in vita, almeno come aspirazione profondamente sentita da tutti i cittadini; e dia agli eletti il potere di amministrare liberamente; di far bene e farsi rinnovare il mandato, di far male e farsi lapidare. Non si tema che i malversatori del denaro pubblico non paghino il fio, quando non possano scaricare su altri, sulla autorità tutoria, suI governo la colpa delle proprie malefatte. La classe politica si forma così : col provare e riprovare, attraverso a fallimenti ed a successi. Sia che si conservi la provincia; sia che invece la si abolisca, perché ente artificioso, antistorico ed anti-economico e la si costituisca da una parte con il distretto o collegio o vicinanza, unità più piccola, raggruppata attorno alla cittadina, al grosso borgo di mercato, dove convengono naturalmente per i loro interessi ed affari gli abitanti dei comuni dei dintorni, e dall'altra con la grande regione storica: Piemonte, Liguria, Lombardia, ecc. ; sempre, alla pari del comune, il collegio e la regione dovranno amministrarsi da sé, formarsi i propri governanti elettivi, liberi di gestire le faccende proprie del comune, del collegio e della provincia, liberi di scegliere i propri funzionari e dipendenti, nel modo e con le garanzie che essi medesimi, legislatori sovrani nel loro campo, vorranno stabilire.
Si potrà discutere sui compiti da attribuire a questo o quell'altro ente sovrano; ed adopero a bella posta la parola sovranità e non autonomia, ad indicare che non solo nel campo internazionale, con la creazione di vincoli federativi, ma anche nel campo nazionale, con la creazione di corpi locali vivi di vita propria originaria non derivata dall'alto, urge distruggere l'idea funesta della sovranità assoluta dello stato. Non temasi dalla distruzione alcun danno per l'unità nazionale. L'accentramento napoleonico ha fatto le sue prove e queste sono state negative: una burocrazia pronta ad ubbidire ad ogni padrone, non radicata nel luogo, indifferente alle sorti degli amministrati; un ceto politico oggetto di dispregio, abbassato a cursore di anticamere prefettizie e ministeriali, prono a votare in favore di qualunque governo, se il voto poteva giovare ad accaparrare il favore della burocrazia poliziesca ed a premere sulle autorità locali nel giorno delle elezioni generali; una polizia, non collegata, come dovrebbe, esclusivamente con la magistratura inquirente e giudicante e con i carabinieri, ma divenuta strumento di inquisizione politica e di giustizia « economica » , ossia arbitraria. L'arbitrio poliziesco erasi affievolito all'inizio del secolo; ma lo strumento era pronto; e, come già con Napoleone, ricominciarono a giungere al dittatore i rapporti quotidiani della polizia sugli atti e sui propositi di ogni cittadino sospetto; e si potranno di nuovo comporre, con quei fogli, se non li hanno bruciati prima, volumi di piccola e di grande storia di interesse appassionante. E quello strumento, pur guasto, è pronto, se non lo faremo diventare mero organo della giustizia per la prevenzione dei reati e la scoperta dei loro autori, a servire nuovi tiranni e nuovi comitati di salute pubblica.
Che cosa ha dato all'unità d'Italia quella armatura dello stato di polizia, preesistente, ricordiamolo bene, al 1922? Nulla. Nel momento del pericolo è svanita e sono rimasti i cittadini inermi e soli. Oggi essi si attruppano in bande di amici, di conoscenti, di borghigiani; e li chiamano partigiani. È lo stato il quale si rifà spontaneamente. Lasciamolo riformarsi dal basso, come è sua natura. Riconosciamo che nessun vincolo dura, nessuna unità è salda, se prima gli uomini i quali si conoscono ad uno ad uno non hanno costituito il comune; e di qui, risalendo di grado in grado, sino allo stato. La distruzione della sovrastruttura napoleonica, che gli italiani non hanno amato mai, offre l'occasione unica di ricostruire lo stato partendo dalle unità che tutti conosciamo ed amiamo; e sono la famiglia, il comune, la vicinanza e la regione. Così possederemo finalmente uno stato vero e vivente.

IN RICORDO DI GOBETTI

Ottanta anni fa moriva a Parigi il 25enne Piero Gobetti, autore del periodico Rivoluzione liberale.
Ma come è possibile essere liberale e insieme “rivoluzionario”? Di sinistra e nello stesso tempo “liberale”? Riconoscendo, da parte socialista, che «il problema del movimento operaio è un problema di libertà e non di eguaglianza sociale»; ed ammettendo altresì, da parte liberale, che la libertà non può essere un privilegio riservato ad una élite illuminata, ma una potenziale conquista di ciascuno in tutti i campi della vita sociale.
«Quando Gobetti parlava di liberalismo – osserva Norberto Bobbio – intendeva riferirsi non ad una determinata teoria dello stato, a quella teoria dei limiti del potere statale che era stata elaborata dai costituzionalisti inglesi e francesi, ma ad una concezione globale della vita e della storia, secondo cui la storia è il teatro delle lotte tra gli uomini, e solo nell’antagonismo degli interessi, nell’antitesi delle forze politiche, nel dibattito delle idee, risiede la molla della civiltà e del progresso».
Ecco perché la stessa “rivoluzione” è vista da Gobetti come un atto liberale, alla stregua di qualunque iniziativa in grado di squarciare la cappa soffocante del conformismo, dell’unanimismo, del consociativismo, del corporativismo. La dialettica degli opposti, come sostiene (ma spesso solo in teoria) anche il marxismo, è un carattere essenziale e ineliminabile della realtà, che però non prevede nessuna “sintesi” e non scompare dopo la “rivoluzione”, poiché sopprimendo la libera dialettica delle forze e delle idee si creerebbe soltanto una società totalitaria ed oppressiva.
Al contrario, per Gobetti, la libertà è un fine politico e morale, un valore che non può mai essere sacrificato, neppure in nome della pur nobile lotta per l’uguaglianza.
Il progresso sociale dovrà riuscire a coniugare uguaglianza e libertà, poiché Gobetti era convinto – come scrive lo storico Lucio Villari – «che il liberalismo non poteva che evolversi in una forma di democrazia progressiva». Ma in nessun caso l’ideale dell’uguaglianza avrebbe dovuto portare ad una limitazione dei diritti individuali. Ostile allo statalismo imperante nel pensiero socialista e favorevole al “libero mercato”, Gobetti guardava tuttavia con altrettanto favore alle agitazioni operaie, e spiegava l’apparente paradosso sostenendo che proprio l’opposizione e le contraddizioni vivificano la realtà: pertanto «la lotta di classe rafforza il sistema borghese», rendendolo migliore e più aperto alle istanze sociali. Riprendendo e sviluppando il modello teorico di Carlo Cattaneo (1801-1869) – eroe risorgimentale delle “cinque giornate di Milano” ed isolato fautore, contro il moderatismo monarchico ma anche contro il centralismo mazziniano, di una “repubblica federale” italiana ed in futuro anche europea – delinea un ideale politico progressista e federalista: «Una società molteplice, libera, articolata, viva per l’interna dialettica delle sue forze, realizzantesi contro ogni paternalismo in infinite autonomie». Ed anche sul piano culturale Gobetti rilancia, in sintonia con l’illustre predecessore, «la speranza di una nuova età illuministica, fondata sulla vittoria della ragione contro l’istinto, della civiltà contro la barbarie, della serietà contro la retorica» (N. Bobbio). Quello che in quegli anni drammatici lo spaventa e lo indigna, più ancora dell’avvento della dittatura e del violento prevalere di un regime liberticida, è il consenso che la svolta autoritaria può incontrare nelle masse, storicamente inclini ad accettare il conformismo, l’omologazione, il “paternalismo corruttore” e disabituate alla critica, al pluralismo conflittuale, alla lotta aperta delle posizioni politiche e ideali. Insomma, peggio del fascismo c’è il “mussolinismo”. Come spiega a conclusione del saggio La rivoluzione liberale, «il mussolinismo è un risultato assai più grave del fascismo stesso, perché ha confermato nel popolo l’abito cortigiano, lo scarso senso della propria responsabilità, il vezzo di attendere dal duce, dal domatore, dal deus ex machina la propria salvezza». E allora «il problema è di lavorare per un’Italia che abbia intima ripugnanza per il fascismo, per i sistemi paternalistici, per i blocchi e le concentrazioni; per un’Italia in cui ognuno sappia sacrificarsi per idee precise e distinte. Questo mi pare realismo politico». Una realistica... utopia che, a tanti decenni di distanza, appare ancora quanto mai attuale, così come la laica “passione libertaria” che animava Piero Gobetti nel suo impegno instancabile per una crescita del senso critico e della responsabilità individuali, contro dogmi e “chiese” di ogni tipo, per un progresso fondato sulla liberazione, l’autonomia e l’autogoverno delle persone e dei gruppi sociali.

sabato 10 maggio 2008

La modernita' di Bakunin

La dottrina dello Stato di Bakunin è ciò che differenzia, fin dalla loro formazione, le due correnti del socialismo ottocentesco e novecentesco. Lo Stato, per definizione di ambedue le fazioni, rappresenta quell'insieme di organi polizieschi, militari, finanziari ed ecclesiastici che permettono alla classe dominante (la borghesia) di rimanere in possesso dei suoi privilegi. La differenza si presenta però nell'utilizzo dello Stato durante il periodo rivoluzionario. Per i marxisti, infatti, si sarebbe dovuta presentare una situazione in cui lo Stato sarebbe stato arma in mano al proletariato per eliminare la controrivoluzione. Solo allora, con la dissoluzione dell'apparato statale si sarebbe passati all'assenza di classi. La posizione di Bakunin (e, con lui, di tutti gli anarchici) è che lo Stato, strumento prettamente in mano alla borghesia, non può essere usato che contro il proletariato: dato che l'intera classe sfruttata non può amministrare l'infrastruttura statale, ci vorrà una classe burocratica che lo amministri.
Bakunin temeva l'inevitabile formazione di una "burocrazia rossa", padrona dello Stato e nuova dominatrice. L'uguaglianza e quindi la libertà, secondo il pensatore russo, non possono esistere nella società marxista. Lo Stato va quindi abbattuto in fase rivoluzionaria. Se lo Stato è l'aspetto politico dello sfruttamento della borghesia, il Capitale ne è quello economico.
La differenza tra la concezione marxiana e quella bakuniana del Capitale, è che per Bakunin questo non è elemento fondante dello sfruttamento: nella sua opera non viene fatto riferimento alcuno alla concezione materialistica della storia (che prevede l'aspetto economico della società come basilare per l'analisi della stessa).
Un aspetto importante del pensiero di Bakunin è la concezione rivoluzionaria del pensatore russo. In primo luogo la rivoluzione deve essere essenzialmente popolare: il senso di questa affermazione va ricercato ancora nel contrasto con Marx. I comunisti credevano in un'avanguardia che dovesse guidare le masse popolari attraverso il cammino rivoluzionario. Bakunin invece prevedeva una società segreta che avrebbe dovuto solamente sobillare la rivolta, la quale poi si sarebbe auto-organizzata dal basso. Altra differenza con il marxismo è l'identificazione del soggetto rivoluzionario. Se Marx vedeva nel proletariato industriale la spina dorsale della rivoluzione (mettendolo in contrapposizione con una classe agricola reazionaria), Bakunin credeva che l'unione tra il ceto contadino e il proletariato fosse l'unica possibilità rivoluzionaria. Marx, in alcuni suoi scritti, non nega la possibilità che il trionfo del proletariato possa giungere senza spargimenti di sangue. Bakunin è invece categorico su questo punto: la rivoluzione, essendo spontanea e popolare, non può essere altro che violenta.
Dato che ogni forma di Stato è una forma di dominio di classe (non importa quale sia la classe) viene spontaneo da chiedersi, quale sia allora la società ideale per Bakunin. In genere il suo interesse è per una forma di autogoverno, una amministrazione della società che vada dal basso verso l’alto nella convinzione che solo in questo modo si possa dare libertà al popolo di dedicare veramente che cosa sia meglio per lui.
Tuttavia non è assente un progetto politico di organizzazione della società che sia alternativa allo Stato: “innanzitutto l’abolizione della miseria, della povertà, e la completa soddisfazione di tutte le necessità materiali per mezzo del lavoro collettivo, obbligatorio e uguale per tutti; e poi l’abolizione d’ogni specie di autorità, la libera organizzazione della vita del paese in relazione alle necessità del popolo, non dall’alto in basso secondo l’esempio dello Stato, ma dal basso in alto, curata dal popolo stesso al di fuori di ogni governo e dei parlamenti; la libera unione delle associazioni dei lavoratori della terra e delle fabbriche, dei comuni, delle province, delle nazioni; e infine, la fraternità di tutta l’umanità trionfante sulla rovina degli Stati. Non abbiamo l’intenzione né la minima velleità di imporre al nostro o a qualunque altro popolo, un qualsiasi ideale di organizzazione sociale tratto dai libri ma, persuasi che le masse popolari portano in se stesse, negli istinti più o meno sviluppati della loro storia, nelle loro necessità quotidiane e nelle loro aspirazioni coscienti o inconsce, tutti gli elementi della loro futura organizzazione naturale, noi cerchiamo questo ideale nel popolo stesso; e siccome ogni potere di Stato, ogni governo deve per la sua medesima essenza necessariamente mirare a subordinarlo a una organizzazione e a fini che gli sono estranei noi ci dichiariamo nemici di ogni governo, di ogni potere di Stato, nemici di una organizzazione di Stato in generale e siamo convinti che il popolo potrà essere felice e libero solo quando organizzandosi dal basso in alto per mezzo di organizzazioni indipendenti assolutamente libere, creerà esso stesso la propria vita.

venerdì 9 maggio 2008

SCHIFANI

di Marco Travaglio
Chiedendo scusa per il disturbo, senza voler guastare questo bel clima di riverenze bipartisan al neopresidente del Senato Renato Schifani, vorremmo allineare qualche nota biografica del noto statista palermitano che ora troneggia la’ dove sedettero De Nicola, Paratore, Merzagora, Fanfani, Malagodi e Spadolini. Il quale non e’ omonimo di colui che insulto’ Rita Borsellino e Maria Falcone ("fanno uso politico del loro cognome", sic) perche’ erano insorte quando Berlusconi defini’ i magistrati "disturbati mentali, antropologicamente estranei al resto della razza umana": e’ proprio lui. Non e’ omonimo dell’autore del lodo incostituzionale che nel 2003 regalo’ l’impunita’ alle 5 alte cariche dello Stato, soprattutto a una, cioe’ a Berlusconi, e aggredi’ verbalmente Scalfaro in Senato perche’ osava dissentire: e’ sempre lui.
L’altroieri la sua elezione e’ stata salutata da un’ovazione bipartisan, da dx a sx. Molto apprezzati il suo elogio a Falcone e Borsellino e la sua dichiarazione di guerra alla mafia. Certo, se uno evitasse di mettersi in affari con gente di mafia, la lotta alla mafia riuscirebbe meglio. Gia’, perche’ - come raccontano Abbate e Gomez ne "I complici", trent’anni prima di sedere sul piu’ alto scranno del Parlamento, Schifani sedeva nella Sicula Brokers, una societa’ di brokeraggio fondata col fior fiore di Cosa Nostra e dintorni. Cinque i soci: oltre a Schifani, l’avvocato Nino Mandala’ (futuro boss di Villabate, fedelissimo di Provenzano); Benny D’Agostino (costruttore amico del boss Michele Greco, re degli appalti mafiosi, poi condannato per concorso esterno); Giuseppe Lombardo (amministratore delle societa’ dei cugini Nino e Ignazio Salvo, esattori mafiosi e andreottiani di Salemi arrestati da Falcone e Borsellino nel 1984).
da L'espresso (agosto 2002)
Sua eccellenza Filippo Mancuso, solitamente bene informato, ha definito così il suo ex compagno di partito: «Un avvocato del foro di Palermo specializzato in recupero crediti». Schifani gli ha risposto con una lettera in cui difende la sua «onesta e onorata carriera» e nega di avere mai svolto una simile attività. Negli archivi della Camera di commercio di Palermo risulta però una società, oggi inattiva, costituita nel 1992 da Schifani con Antonio Mangano e Antonino Garofalo: la Gms. L'avvocato Antonino Garofalo (socio accomandante come Schifani) è stato arrestato nel 1997 e poi rinviato a giudizio per usura ed estorsione nell'ambito di indagini condotte dal sostituto Gaetano Paci della Procura di Palermo. L'ex socio di Schifani è ritenuto il capo di un'organizzazione che prestava denaro nella zona di Caccamo chiedendo interessi del 240 per cento. Schifani non è stato coinvolto nelle indagini ma certo non deve essere piacevole scoprire di essere stato socio con un presunto usuraio in un'impresa che come oggetto sociale non disdegnava: «L'attività esattoriale per conto terzi di recupero crediti e l'attività di assistenza nell'istruttoria delle pratiche di finanziamento...».
In un rapporto dei carabinieri del nucleo di Palermo, di cui "L'Espresso" è in grado di rivelare i contenuti, si ricostruisce la storia di un'altra strana società di cui il capogruppo di Forza Italia è stato socio e amministratore per poco più di un anno. Si chiama Sicula Brokers, fu istituita nel 1979 e oggi ha cambiato compagine azionaria. Tra i soci fondatori, accanto a un'assicurazione del nord, c'erano Renato Schifani e il ministro degli Affari regionali Enrico La Loggia, nonché soggetti come Benny D'Agostino, Giuseppe Lombardo e Nino Mandalà. Nomi che a Palermo indicano quella zona grigia in cui impresa, politica e mafia si confondono. Benny D'agostino è un imprenditore condannato per concorso esterno in associazione mafiosa e, negli anni in cui era socio di Schifani e La Loggia, frequentava il gotha di Cosa Nostra. Lo ha ammesso lui stesso al processo Andreotti quando ha raccontato un viaggio memorabile sulla sua Ferrari da Napoli a Roma assieme a Michele Greco, il papa della mafia.
Giuseppe Lombardo invece è stato amministratore delle società dei cugini Ignazio e Nino Salvo, i famosi esattori di Cosa Nostra arrestati da Falcone nel lontano 1984 e condannati in qualità di capimafia della famiglia di Salemi. Nino Mandalà, infine, è stato arrestato nel 1998 ed è attualmente sotto processo per mafia a Palermo. Questo ex socio di Schifani e La Loggia era il presidente del circolo di Forza Italia di Villabate, un paese vicino a Palermo e proprio di politica parlava nel 1998 con il suo amico Simone Castello, colonnello del boss Bernardo Provenzano. Mandalà riferiva a Castello l'esito di un burrascoso incontro con il ministro Enrico La Loggia. Mandalà era infuriato per non avere ricevuto una telefonata di solidarietà dopo l'arresto del figlio e così raccontava di avere chiuso il suo colloquio con La Loggia: «Siccome io sono mafioso ed è mafioso anche tuo padre che io me lo ricordo quando con lui andavo a cercargli i voti da Turiddu Malta che era il capomafia di Vallelunga. Lo posso sempre dire che tuo padre era mafioso. A quel punto lui si è messo a piangere». La Loggia ha ammesso l'incontro ma ne ha raccontato una versione ben diversa. Nella stessa conversazione intercettata Mandalà parlava di Schifani in questi termini: «Era esperto a 54 milioni all'anno, qua al comune di Villabate, che me lo ha mandato il senatore La Loggia».
Schifani è stato sentito dalla Procura e ha spiegato la consulenza e lo stipendio: «Il mio studio è uno dei più accreditati in campo urbanistico in Sicilia». Ma per La Loggia sotto sotto c'era una raccomandazione: «Parlai di Schifani con Gianfranco Micciché e gli dico se fosse possibile fargli trovare una consulenza. È un modo per dirgli grazie. E allora parlammo con il sindaco Navetta». Il sindaco Navetta è il nipote di Mandalà e il suo comune è stato sciolto per mafia nel 1998.
Il capogruppo di Forza Italia è stato sfortunato anche nella scelta dei suoi assistiti: Innocenzo Lo Sicco, un mafioso pentito, il 26 gennaio del 2000 entra in manette in aula a Palermo e viene interrogato sulla vicenda di un palazzo noto in città, quello di Piazza Leoni. Le sue parole fanno balenare pesanti sospetti: «L'avvocato Schifani ebbe a dire a me, suo cliente, che aveva fatto tantissimo ed era riuscito a salvare il palazzo di Piazza Leoni facendolo entrare in sanatoria durante il governo Berlusconi perché, così mi disse, fecero una sanatoria e lui era riuscito a farla pennellare sull'esigenza di quegli edifici. Era soddisfattissimo. Perché lo diceva a me? Ma perché io lo avevo messo a conoscenza di qual era la situazione, l'iter, le modalità del rilascio della concessione...».
La Procura dopo aver analizzato le parole del pentito non ha aperto alcun fascicolo per la genericità del racconto. Comunque la storia di questo palazzo comincia alla fine degli anni Ottanta quando Pietro Lo Sicco, imprenditore finanziato dalla mafia e zio di Innocenzo, mette gli occhi su un terreno a due passi dal parco della Favorita, una delle zone più pregiate di Palermo. Lo Sicco vuole costruirci un palazzo di undici piani ma prima bisogna eliminare due casette basse che appartengono a due sorelle sarde Pilliu, che non vogliono svendere. Pietro Lo Sicco le minaccia e le sorelle si rivolgono alla polizia. Ma Lo Sicco ottiene la concessione edilizia grazie a una mazzetta di 25 milioni di lire e comincia ad abbattere l'appartamento a fianco. Le sorelle vedono avvicinarsi il bulldozer ed arrivare nel loro negozio i fusti di cemento. Il messaggio è chiaro: finirete lì dentro. La Procura offre alle Pilliu il programma di protezione e oggi le sorelle vivono proprio nel palazzo costruito da Lo Sicco e confiscato dallo Stato. Il costruttore è stato condannato a 2 anni e otto mesi per truffa e corruzione a cui si sono aggiunti sette anni per mafia.
Schifani ha difeso l'impresa Lo Sicco davanti al Tar. Il pentito Innocenzo Lo Sicco, ha raccontato che lui stesso accompagnava l'avvocato Schifani negli uffici per seguire la pratica. Certo all'epoca l'imprenditore non era stato inquisito e il senatore non poteva sapere con chi aveva a che fare anche se il genero di Lo Sicco era sparito nel 1991 per lupara bianca. In quegli anni Schifani assisteva anche altri imprenditori incappati nelle confische per mafia, come Domenico Federico, prestanome di Giovanni Bontate, fratello del capo della cupola Stefano. Un settore quello delle confische che il senatore non ha dimenticato ed ha presentato un progetto di legge (numero 600) per modificare la legge sulle confische e sui sequestri.
da "Se li conosci li eviti" di Gomex e Travaglio
Secondo il pentito Francesco Campanella, negli anni Novanta "il piano regolatore di Villabate, strumento di programmazione fondamentalein funzione del centro commerciale che si voleva realizzare e attorno al quale ruotavano gli interessi di mafiosi e politici, sarebbe stato concordato da Antonino Mandalà con La Loggia. L’operazione avrebbe previsto l’assegnazione dell’incarico ad un loro progettista di fiducia, l’ingegner Guzzardo, e l’incarico di esperto del sindaco in materia urbanistica allo stesso Schifani, che avrebbe coordinato con il Guzzardo tutte le richieste che lo stesso Mandalà avesse voluto inserire in materia di urbanistica. In cambio, La Loggia, Schifani e Guzzardo avrebbero diviso gli importi relativi alle parcelle di progettazione Prg e consulenza. Il piano regolatore di Villabate si formò sulle indicazioni che vennero costruite dagli stessi Antonino e Nicola Mandalà [il figlio di Antonino che per un paio d’anni ha curato gli spostamenti e la latitanza di Bernardo Provenzano, nda], in funzione alle indicazioni dei componenti della famiglia mafiosa e alle tangenti concordate".Schifani, che effettivamente è stato consulente urbanistico del comune di Villabate, e La Loggia hanno annunciato una querela contro Campanella.

giovedì 8 maggio 2008

TREMONTI IL MAGO OTELMA

Le idee di Giulio Tremonti avranno un peso non indifferente nella piega che la politica economica del governo assumerà nel dare risposta alle istanze di tutti coloro che hanno affidato al centrodestra la soluzione delle loro preoccupazioni: il senso di impoverimento relativo che lamentano ampi strati della popolazione, tra i ceti medi e tra quelli operai, le paure per un futuro che a molti sembra difficile da anticipare e ancor più da pianificare.
Le idee dell’onorevole Tremonti rassicurano questi timori e sono compendiate in un saggio recente “La paura e la speranza" molto pubblicizzato.
L’analisi di Tremonti dello stato dell’economia italiana è riassumibile in una serie di punti che è utile ripercorrere: 1. Le difficoltà che attraversa la nostra economia originano in larga misura dalla forte pressione competitiva che proviene dalle nuove economie e innanzitutto dalla Cina; 2. Alla rapida crescita cinese si attribuisce il rincaro dei prezzi dei beni che compongono il paniere degli italiani e la conseguente perdita di potere d’acquisto. Alla Cina, e alla sua concorrenza “sleale” si imputa la difficoltà di tante imprese, spesso di piccole dimensioni, che lottano quotidianamente per non essere estromesse dal mercato. Da qui una domanda crescente di protezione. 3. La ricetta: proteggere lavoratori e imprese “gestendo” la globalizzazione, cercando di contenere la crescita e la pressione competitiva cinese (e indiana) con una qualche forma di governo mondiale dell’economia, di cui il governo italiano si farebbe promotore presso gli altri paesi dell’Unione. 4. Anche quel senso di insicurezza personale che molti lamentano e ricollegano alle recenti ondate di immigrazioni, sarebbe figlia del mancato governo della “globabilizzazione” e degli spostamenti crescenti di lavoratori che ha provocato.
Secondo Tremonti dunque i guai dell’Italia originano da una globalizzazione non governata e che è ora necessario imbrigliare per proteggere lavoratori e imprese italiane dai suoi effetti più diretti. Se la Cina crescesse meno, esercitasse minor pressione competitiva, i nostri lavoratori e le nostre imprese ne sarebbero sollevati. È la tesi no-global di Tremonti.
Che implicazioni ha tutto ciò sulla politica economica e in particolare sulla politica fiscale?
Il governo dovrebbe comunque affrontare il problema del debito, cercare di stabilizzarlo e contenerlo: un compito difficile. Ma se non riesce a fare quello che andrebbe fatto, allora la domanda di protezione dei cittadini dovrà essere soddisfatta in altra maniera.
Se l’analisi di Tremonti fosse corretta, e non lo è, di certo non lo è la ricetta. Non solo perché dazi e protezione commerciale sono alla lunga dannosi per chi li adotta, ma, più realisticamente, perché oggi sono inapplicabili.
Primo, la Cina è ormai una enorme potenza commerciale e politica. Economicamente è il secondo più grande paese al mondo dopo gli Stati Uniti, è presente in 174 paesi con oltre cinquemila imprese, produce più di tre volte dell’Italia (Pil in Ppp), ha una popolazione di 1.3 miliardi di persone, cresce del 10 per cento all’anno e, a questi ritmi, fra cinque anni la sua produzione sarà sei volte più grande di quella dell’Italia e pari al 70 per cento di quella dell’intera Unione Europea.
Lo stesso dibattito che imperversa in Italia e la stessa domanda di protezione attraversa da diversi anni gli Stati Uniti. Quello che le lobby industriali americane, notoriamente potenti e organizzate, sono riuscite a ottenere dall’amministrazione è stata solo una certa pressione sulla Cina perché lasciasse apprezzare lo yuan, ma nessuna cessione sulla richiesta di quote e dazi avanzate da un manipolo di senatori al Congresso. Ciò che la Cina ha concesso è un modesto apprezzamento del 15 per cento dello yuan sul dollaro, da quando ha abbandonato il cambio fisso. Non si vede perché Tremonti possa riuscire dove non riescono i ben più potenti Stati Uniti d’America.
Secondo, la Cina è ormai un enorme mercato di sbocco per le nostre imprese e per quelle degli altri paesi europei. Molte vi sono gia insediate, altre hanno in animo di farlo, altre semplicemente vi esportano i loro prodotti o importano dalla Cina prodotti intermedi e semilavorati a basso costo. Una economia che cresce al tasso del 10 per cento all’anno è una manna per molti. Difficile ottenere il consenso di queste imprese su una politica protezionistica.
Terzo, dell’importazione di beni cinesi a basso costo beneficiano in tanti, forse senza neanche rendersene conto; ma ne prenderebbero immediatamente coscienza il giorno in cui quei beni dovessero immediatamente diventare più costosi. Un esempio: buona parte dei manufatti di Ikea sono made in China e sono acquistati con soddisfazione da decine di migliaia di persone. Le associazioni dei consumatori, in Italia e in Europa, si ribellerebbero a proposte di contingentamento di questi manufatti.
Insomma, la ricetta Tremonti poteva forse essere tentata dieci anni fa, quando la Cina iniziava il suo cammino; oggi è semplicemente inapplicabile. La domanda di protezione dovrà essere soddisfatta attraverso altre strade o non essere soddisfatta affatto. Credo che quello che realisticamente avverrà sarà una combinazione delle due cose. Un po’ di trasferimenti pubblici e un po’ di detassazione mirata e limitata, dati i vincoli stringenti sulla finanza pubblica. Ma soprattutto un abbandono delle promesse di protezione a cui si è alluso in campagna elettorale.
Esiste una alternativa più seria che, se perseguita, potrà lentamente ridare ai cittadini la capacità di vedere lontano e pianificare meglio il proprio futuro, rassicurandoli nel presente. Ma questo richiede l’abbandono di alcune delle premesse del ragionamento tremontiano.
Innanzitutto la presa d’atto che la Cina esiste per tutti non solo per i lavoratori e le imprese italiane. Ma l’Italia da dieci anni a questa parte cresce sistematicamente meno degli altri in Europa: circa un punto percentuale in meno all’anno. Questo non è imputabile alla Cina, ma solo e unicamente alle carenze nazionali, alle riforme non fatte, alle liberalizzazioni solo accennate e mai perseguite fino in fondo, al peso delle inefficienze del settore pubblico, alla cattiva qualità dell’intervento dello Stato in economia, all’eccessiva quantità di questo intervento.
Il prossimo governo, con la maggioranza solida che lo caratterizza, può aver successo dove altri hanno fallito, come sulle liberalizzazioni. Recuperare un punto di crescita di Pil all’anno sarebbe un notevole risultato: da solo sarebbe sufficiente a ridare certezza e prospettiva a lavoratori e imprese.
Le idee di Tremonti, utili per conquistare consensi, non lo saranno altrettanto per risolvere i problemi del paese. Meglio cambiarle.

I NOSTRI PARLAMENTARI

dal blog di Martinelli
Sono 930 finora le proposte di Legge depositate in Parlamento ritenute prioritarie, di queste ben 48 sono di Francesco Cossiga, un sarcofago che staziona dentro i palazzi da ormai oltre un quarantennio. Ebbene, il benemerito ex presidente della Repubblica chiede urgentemente l’amnistia per spie e terroristi, per gli eversori dell’ordine democratico commessi contro lo Stato italiano e gli Stati alleati associati, oltre che un esame psicoattitudinale per i magistrati.
Il leghista Piergiorgio Stiffoni chiede sia istituita la giornata nazionale dei bonificatori, il suo collega di partito Giacomo Stucchi chiede la zona franca per Lampedusa e Linosa, il berlusconiano Mario Pepe sottopone l’apertura di case da gioco stagionali ad Anzio e Ariccia (RM). Ma c’è chi le chiede eterne anche ad Ostuni (BR) e a Stresa (VB).
Quanto ai privilegi dei parlamentari i leghisti Stefano Stefani e Matteo Brigandì sottopongono un'improbabile proposta di “norme in materia di riduzione dell’indennità parlamentare”.
Mentre il loro leader Umberto Bossi ha messo sul tavolo la piena attuazione dell’articolo 119 sul federalismo fiscale, altri leghisti della Roma ladrona sprecona hanno già chiesto l’istituzione di nuove province: quella della Val Camonica (BS) e di Lanciano Ortona (CH).
Il forzista Paolo Russo vorrebbe istituire il museo della pasta alimentare della regione Campania, la pidina Martina Sereni chiede che l’Inno di Mameli diventi l’inno ufficiale della Repubblica.
La sua collega ex radicale Donatella Poretti chiede sia legalizzata la cannabis e i suoi derivati mentre Rita Bernardini ha presentato un pacchetto di norme per la separazione delle carriere dei magistrati e l'abolizione degli incarichi extragiudiziali.
Infine Giovanni Legnini ritiene prioritario venga istituita la qualifica di pizzaiolo, mentre tra norme sul collezionismo e disciplina del pearcing la veltrusconiana Silvana Amati chiede la mutua per cani e gatti: evidentemente la deputata non sa come va la sanità per gli umani in alcune regioni italiane.
Non si vedono norme sul conflitto di interesse nè sulla razionalizzazione del funzionamento della giustizia.
Nel paese da 1.860 miliardi di debito pubblico i nostri deputati fanno i marziani con proposte di legge semplicemente folli.

IL NUOVO GOVERNO


La persona che più provoca orrore è senz'altro Frattini, l’imbalsamato agli Esteri. Una mummia alla quale ogni tanto cambiano il vestito e tagliano le unghie.
Ben 4 ministeri alla Lega, più fortunata di AN, Maroni agli interni e tale Zaia, uno sconosciuto, alle Politiche agricole.
Alla Giustizia un siciliano, tale Alfano, non di bell'aspetto ma il ministro piu’ giovane dopo la Gelmini, 38 anni. Questa nomina lascia presumere che il Berluscaz intenda mettere mani a modo suo alla giustizia, già sofferente.
Dopo Biondi, Mancuso, Castelli e Mastella, questa non ci voleva: alla festa di nozze della figlia del capomafia di Palma di Montechiaro tale Napoli Croce, morto l'anno scorso, si vede il giovane deputato di Forza Italia Alfano che bacia il capomafia del paese. Angelino si è difeso in Procura dicendo che non conosceva bene il Napoli e credeva che fosse incensurato.
Il solito Tremonti, uomo dalla doppia morale, sebbene reduce della voragine del deficit pubblico torna all'Economia con una nuova progettualità: svendite di beni pubblici agli amici, cessione delle coste demaniali, inutili opere pubbliche e condoni.
La Russa alla Difesa avrà un ruolo simbolico mentre Scajola riceve lo sviluppo economico, stimato allo 0,2% per il 2008.
La Prestigiacomo va all'Ambiente, sebbene non abbia alcuna competenza specifica, tanto per dare una casella al gentil sesso.
Allo stesso la Carfagna, sistemata alle pari opportunità, giura che smettera’ di fare la soubrette: perderemo le sue gambe, unica qualità della persona in questione.
La trentunenne Meloni è una racchiona di scarso rilievo se non fosse per la sua abissale disconoscenza della lingua italiana, ma è un male diffuso tra i giovani che non fa scandalo.
Della Gelmini, anch'essa sconosciuta, si può solo dire che è giunta alla corte del premier mediante il giardiniere di Arcore che, a seguito delle sue insistenze, la accompagnò alla corte del capo. La Gelmini ci tiene a sottolineare di non aver mai avuto intimità con Berlusconi e che il suo è esclusivamente un rapporto politico. Alcuni ben informati la raccontano diversamente, ma comunque sia, non può dirsi una bella donna, per cui è probabile che dica la verità.
Sacconi al Welfare è certamente meglio della Brambilla o di Ronchi, cui è toccato un piccolo ministero senza portafoglio.
Bondi fara’ il ministro dei beni culturali, mentre Bossi era giocoforza infilarlo alle riforme, come pure doveva accontentarsi Calderoli, per il quale è stato inventato un ministero alle semplificazioni.
Le infrastrutture passano da Di Pietro a Matteoli, il quale si contraddistinse nel governo precedente per la sua spiccata insensibilità ai problemi legati all'ecologia ed all'ambiente.
Rotondi strepitava per un nanoministero ed hanno dovuto inventarglielo, mentre il giovane e (s)pregiudicato Fitto ha avuto la delega agli affari regionali. E' improbabile che ripartirà in tempi brevi con episodi di corrutela e/o di approvvigionamento illecito dalle casse dello stato perchè il procedimento penale a suo carico, per il quale la Procura di Bari chiese l'arresto, è ancora in corso.
Elio Vito ha scelto i rapporti bicamerali, mentre Brunetta, uomo di una certa competenza in materia economica, si è dovuto accontentare di una sediolina con le gambe corte.
Quello che fa preoccupare è la scomparsa del Ministero della Salute o, peggio, la delega - come si sente dire - alla Brambilla. Figurarsi che la città di Lecco è scesa in piazza per protestare contro le condizioni degli animali segregati nel canile pubblico, gestito, per l'appunto, dalla rossa dei circoli della libertà.
L’opposizione fantasma fa il governo ombra, e l’ombra di D’Alema persiste cupa avvelenando i fantasmi superstiti. La differenza sara’ se appoggiare le riforme e se all'opposizione dura di Di Pietro si accompagnerà quella di Veltroni.
Morfeo Napolitano, il peggior capo di stato della repubblica delle banane, si dice contento. Con 1500 guardie a cavallo, 300 tra camerieri, inservienti, cuochi, maggiordomi e segretari non ha problemi di alcun genere. Il suo appannaggio di 400.000 euri annui e tutti i suoi privilegi non si toccano, vita natural durante.