domenica 9 dicembre 2012

Ecco il debito pubblico questo sconosciuto

da lindipendenza:

-Le regioni tosco-padano-venete sono spremute peggio che le colonie africane del secolo scorso. Ogni anno lasciamo nelle casse romane un valore doppio rispetto a quello di tutti i diamanti estratti, raffinati e venduti al mondo. Roma grazie ai nostri sforzi dispone di un portafoglio del valore di 125 Miliardi di euro ogni anno!
-Già oggi le regioni tosco-padano-venete pagano tutti gli interessi sul debito pubblico. (circa 75 miliardi)
-Le regioni tosco-padano-venete sussidiano il tenore di vita dell’Italia mediterranea. (circa 25 miliardi trasferiti al sud ogni anno)
-Roma spende per l’apparato istituzionale e diplomatico più di quello che resta (oltre 25 miliardi ogni anno)
-Roma finanzia la spesa in eccesso rastrellando risparmio privato, in altre parole vendendo titoli del debito pubblico. Dopo decenni di spese incontrollate, l’importo dei capitali privati affidati allo stato italiano ha raggiunto l’astronomica cifra di 2 Mila Miliardi.
I risparmiatori privati hanno volontariamente sottoscritto i titoli di stato. Ovvero hanno dato a prestito allo stato i loro risparmi in cambio di una promessa: riavere indietro i soldi ad una scadenza stabilita ed avere una piccola rendita periodica sotto forma di interessi. Questo è il debito pubblico: contratti tramite i quali lo stato promette di restituire ai risparmiatori il capitale e gli interessi. Qualcuno dice che il debito è un trucco contabile, che non esiste, che è colpa dell’euro o della Banca Centrale o di un complotto internazionale. Altri dicono che è tutta colpa della perdita della “sovranità monetaria” e che basterebbe tornare alla lira e ridare allo stato la possibilità di stampare banconote, quante gliene occorrono per pagare le sue spese. Queste sono affermazioni che non corrispondono al vero e che non aiutano a trovare alcuna soluzione.
1) Che il debito pubblico sia una posta contabile è vero, ma certo non è un trucco. Talvolta è lecito dubitare delle statistiche ma è difficile credere che sia sbagliato il conto del debito. Infatti, per ogni euro dato allo stato, c’è un soggetto privato che quell’euro l’ha prima guadagnato e poi l’ha volontariamente prestato allo stato medesimo. Di questa transazione c’è una traccia contabile ben precisa e, per fortuna per il risparmiatore, non c’è proprio nessun trucco! E’ un dato di fatto ma non rappresenta alcuna soluzione!
2) Ad ogni debito corrisponde un credito, questo è forse la base sottostante all’affermazione che: “il debito non esiste”. Qualcuno potrebbe considerare di compensare debiti con crediti e quindi azzerare il debito. La compensazione è possibile solo in capo al medesimo soggetto, altrimenti è una frode. Certo nel debito pubblico il debitore è uno solo: lo stato come organizzazione. I creditori però sono molteplici e distinti: siamo noi risparmiatori, privati cittadini che sui nostri risparmi ci contiamo e ci facciamo affidamento per vivere e fare impresa. Cancellare il debito pubblico significa derubare noi risparmiatori dei nostri risparmi. Significa che pensionati, famiglie, imprese e banche italiane ed estere perderebbero il loro legittimo diritto a riavere i loro soldi. Un disastroso colpo di spugna sugli impegni presi dallo stato, a unico vantaggio della nostra fallimentare classe politica. Cancellare il debito sarebbe autolesionismo, tutt’altro che una buona soluzione!
3) Attribuire la responsabilità del debito all’euro è un modo per i politici nostrani di scaricare la loro responsabilità. L’euro è solo l’unità di misura del debito, né più né meno che il litro per i volumi o il chilo per i pesi. Se ci fossero ancora le lire, non avremmo meno debito, semplicemente dovremmo scrivere più zeri e parlare di milioni di miliardi. Un chilo d’oro pesa come un chilo di fieno. Solo che la liretta di paglia è molto più difficile da maneggiare e da difendere; come la paglia, la lira si deteriora nel tempo (ovvero il suo potere d’acquisto è eroso dall’inflazione) e costerebbe cara (ovvero dovremmo pagare tassi di interesse ben più alti di quelli che conosciamo oggi). Tornare alla lira farebbe schizzare i tassi d’interesse sui debiti: molte imprese e molte famiglie in crisi riceverebbero il colpo di grazia. Tutt’altro che una soluzione!
4) Mettere in mezzo la banca centrale europea come responsabile della nostra condizione significa non conoscere la storia. Il governo italiano già dal 1981 ha ceduto la politica monetaria alla banca d’Italia, per l’esattezza questo divorzio ha avuto luogo il 12 febbraio 1981 ad opera del ministro Beniamino Andreatta. In quella data il governo toglieva l’obbligo alla Banca d’Italia di acquistare, emettendo valuta, i titoli del debito pubblico non collocati sul mercato. Da quella data se lo stato italiano avesse speso troppo, non avrebbe potuto semplicemente stampare lire, ma avrebbe dovuto trovare dei risparmiatori cui chiedere in prestito i soldi di cui aveva bisogno. Togliendo la politica monetaria dal diretto controllo politico, si riuscì a fermare l’iperinflazione degli anni 70. Infatti, la politica monetaria gestita dai politici trovava molto semplice coprire i fabbisogni dello stato facendo stampare nuova moneta dalla Banca d’Italia. Dal 1981 questo non è stato più possibile, si è messo un controllo alla moneta, ponendo un limite, già allora, il volume di banconote in circolo nell’economia reale. Sappiamo che questo non fu la soluzione di tutti i mali, poiché a causa dell’inettitudine della classe politica italiana, il debito cominiciò a crescere, anno dopo anno, a livelli eccessivi. Gli anni ’80 furono quelli del “pentapartito” e della “Milano da bere”. Anche allora la classe politica italiana non è stata in grado di ridurre le spese ed ha intrapreso l’unica strada che le restava per finanziare le politiche assistenziali e le spese della casta: ha offerto ai risparmiatori i titoli del debito pubblico.
Nel primo decennio del duemila, con l’euro, la storia si è ripetuta, ma con proporzioni amplificate. Se oggi, lo stato potesse semplicemente stampare nuova moneta per finanziare le sue spese, come vorrebbero coloro che auspicano il ritorno nei nostri confini della “sovranità monetaria”, avremmo immediatamente troppa moneta in circolazione e quindi forte inflazione dei prezzi con danno per tutti, soprattutto per i ceti più deboli. Il passaggio all’euro e alla Banca Centrale Europea nel 2001 non ha sostanzialmente cambiato la possibilità del governo italiano di influenzare la politica monetaria. Questa separazione tra le scelte di politica monetaria e la responsabilità riguardo alla politica fiscale era già in vigore da venti anni. Comunque la Banca Centrale Europea ha portato alcuni sensibili vantaggi. L’impegno di diciassette paesi a centralizzare le politiche monetarie ha generato una grande opportunità per paesi spendaccioni come l’Italia unita. Con l’euro, i tassi d’interesse sono stati bassi e controllati. Dal 2001 al 2008 le imprese e le famiglie italiane hanno pagato tassi d’interesse molto bassi, e di questo ne ha beneficiato anche il governo. Purtroppo però Roma trovandosi a spendere molto meno per gli interessi non ha colto l’opportunità di ridurre le spese, anzi il debito non ha mai smesso di crescere. Uscire dall’euro e dalla Banca Centrale Europea avrebbe l’effetto opposto. I tassi di interesse che l’economia pagherebbe schizzerebbero all’insù, ben oltre il valore che oggi conosciamo come spread, portando lo stato al fallimento e polverizzando i nostri risparmi. Il governo aveva rinunciato alla sovranità monetaria, decenni prima di entrare nell’euro, quando ancora c’era la lira. Vorremmo ridare ai nostri politici la possibilità di stampare banconote per finanziare la loro incompetenza? Non mi pare che sia una buona soluzione!
5) Taluni sostengono però che il ritorno alla lira e l’uscita dall’euro sarebbe vantaggioso per i lavoratori ed i consumatori. Questa ipotesi si basa sull’evidenza che nell’anno del passaggio all’euro i salari sono rimasti invariati (1.600.000 lire furono matematicamente convertiti in circa 800 euro) mentre molti prezzi hanno trasposto le vecchie 1000 lire in una moneta da 1 euro. In molte realtà, questa conversione bislacca avvenne realmente quando si entrò nell’euro. Purtroppo però è opinabile che accada l’opposto se oggi uscissimo dall’euro per ritornare alla lira. Con l’euro, i consumatori che videro diminuire il costo dell’indebitamento privato (per esempio i mutui) si trovarono con più soldi disponibili da spendere. In generale grazie a questo beneficio, non trovarono la forza di reagire all’aumento dei prezzi che avvenne a seguito della conversione dalle lire agli euro. Contrariamente a quanto ci si sarebbe dovuti attendere, all’aumento dei prezzi non seguì una diminuzione della domanda di beni o servizi. Purtroppo se oggi si riportasse in Italia la sovranità monetaria, e si ritornasse alla lira, il governo ricomincerebbe a stampare banconote, cioè monetizzerebbe il debito. La conseguenza sarebbe il riaccendersi dell’inflazione. Tradotto per la gente comune, significa che i prezzi, non più in euro bensì in lire, salirebbero ulteriormente, a danno ancora una volta dei risparmiatori e dei ceti deboli. Tornare alla lira significa far esplodere l’inflazione, non è certo una soluzione indolore!
6) Taluni dicono che l’andamento dei tassi sia pilotato da qualche complotto internazionale. Ma questa tesi non è sostenibile se si comprende che il tasso d’interesse altro non è che il prezzo del denaro, determinato dal gioco della domanda e dell’offerta in un mercato libero. Il mercato dei capitali globale è tra quelli più liberi e concorrenziali. E’ illogico biasimare oggi il livello di prezzo richiesto allo stato italiano per piazzare il debito. Questo mercato è lo stesso che ha permesso al medesimo stato di piazzare analogo debito a tassi ben più convenienti solo alcuni lustri or sono. Appena entrati nell’euro, pareva credibile che l’Italia si avviasse su un sentiero di convergenza verso l’avanzo di bilancio. Quest’aspettativa ha permesso ai mercati di accettare dall’Italia tassi in linea con paesi dalla migliore reputazione. Ora il tempo è passato senza segni credibili dal lato della politica fiscale italiana: l’apertura di credito è scaduta. In più il mondo è nel mezzo di una crisi globale. Non c’è da stupirsi se oggi i risparmiatori e gli investitori preferiscono dare i loro soldi ad istituzioni ed organizzazioni che hanno una storia di affidabilità ben più solida. L’automatico riflesso di questo stato di cose è la difficoltà dell’Italia nel piazzare il suo debito, e per convincere gli investitori ad accordarle la loro preferenza, (ovvero a fidarsi ancora delle promesse dello stato) deve rendere il suo debito più interessante e promettere interessi più elevati. Quindi nessun complotto dietro l’impennata dei tassi: semplicemente la dinamica dell’equilibrio della domanda e dell’offerta. E’ un fatto che può non piacere, ma non rappresenta la soluzione!
La soluzione al debito e la via maestra per uscire dalla crisi solo una. Bisogna ridurre drasticamente la spesa statale. Occorre riportare il bilancio statale in attivo riducendo la spesa pubblica. Meno soldi allo stato significa tagliare i tentacoli della politica e della burocrazia. Questo è quello che in Germania chiamano “austerità”. Purtroppo da noi le politiche di “austerity”, parola tradotta in inglese così da potergli dare il significato che più fa comodo, sono state messe in atto al contrario: sono aumentate solo le tasse lasciando invariate le spese

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