mercoledì 14 novembre 2012

Le primarie del Pd ed il surreale dibattito politico italiano

di Luigi Pandolfi

Dire che il dibattito politico oggi in Italia è surreale è forse troppo poco. Me ne sono ulteriormente convinto dopo confronto tra i candidati alle primarie del Pd. Non che la situazione prima di questo reality difettasse di elementi per trarre una simile conclusione, ma il fatto di poter ascoltare tutti insieme coloro che si candidano a guidare il prossimo governo del paese è stato decisivo per fugare ogni dubbio sull'inanità della classe politica nostrana.
Provo a spiegare le ragioni di questa mia severa presa di posizione. Primo. A cosa servono queste primarie? A scegliere il prossimo candidato del centrosinistra alla presidenza del consiglio, si direbbe. Ebbene, questa evenienza attualmente è fortemente messa in discussione dal fatto che nessuno sa con certezza quale sarà la legge elettorale con cui si andrà al voto. Questione non di poco conto, se si considera che da essa dipenderà la possibilità o meno che una delle forze in campo avrà una maggioranza sicura nel prossimo parlamento, dunque che uno dei candidati alle primarie potrà assurgere alla carica di primo ministro.
Con una soglia superiore al 40% per il premio di maggioranza, per intenderci, sarà più plausibile un Monti-bis che un gabinetto Bersani. Ecco perché sono in molti a dire in queste ore che questa competizione servirà sicuramente a decidere chi comanda nel Pd, poi, ma solo a determinate condizioni, a stabilire chi dei contendenti potrebbe andare a Palazzo Chigi.
Secondo. Dando anche per scontato che uno dei cinque competitori sarà il prossimo presidente del consiglio, c'è una questione molto più dirimente che spiega il mio assunto iniziale: il provincialismo ed il politicantismo che segnano il profilo di costoro. Come, del resto, di tutta la classe politica italiana del momento, che briga quotidianamente per salvare se stessa, i propri privilegi, mentre altrove si decidono i destini della nazione.
È ormai chiaro che una serie di meccanismi, derivanti dalla sottoscrizione di trattati internazionali, impongono al nostro paese delle linee di condotta in materia economica e di finanza pubblica alle quali non si può derogare, a meno che non li si metta formalmente in discussione, sciogliendo i patti che si sono stipulati. L'Italia, come gli altri paesi dell'Unione, ha sottoscritto e ratificato trattati da cui discendono meccanismi di controllo sulle nostre scelte di politica economica, impegni finanziari verso fondi transnazionali, obbligazioni in tema di riduzione della spesa sociale e di pareggio di bilancio.
Ebbene, in un confronto tra aspiranti presidenti del consiglio è ammissibile che non si sentano parole, espressioni o acronimi come Fiscal Compact, Meccanismo Europeo di Stabilità (MES), Patto di Stabilità e Crascita, Clausole di Azione Collettiva (CAC), ecc.?
Eppure, come ci insegnano il caso greco, quello spagnolo e portoghese, proprio il nostro, quello italiano, ed altri ancora, i vincoli di compatibilità economico-finanziaria con le direttive europee costituiscono il principale fattore di influenza delle nostre scelte di politica economica e finanziaria per i prossimi anni.
Facciamo un esempio: sottoscrivendo e ratificando il trattato sul Mes, il nuovo fondo per la stabilità finanziaria dell'Unione, l'Italia si è impegnata a corrispondere alle casse del neonato organismo, anche attraverso l'emissione di nuovi titoli di stato, la cifra di 125.395.900.000di Euro in cinque anni.
Un esborso che comporterà un aumento del debito pubblico e ancora più rigore e tagli alla spesa sociale.
È plausibile che non si parli di queste cose? No, evidentemente.
Ma c'è una spiegazione. In Europa si è determinata un'inedita forma di divisione del lavoro: da un lato tecnostrutture anonime che esercitano il potere reale, dall'altra una schiera di burattini che hanno il compito di puntellare la finzione della democrazia rappresentativa. In tutto ciò sta la surrealtà del confronto politico nel nostro paese. Primarie accluse.

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