giovedì 8 maggio 2008

TREMONTI IL MAGO OTELMA

Le idee di Giulio Tremonti avranno un peso non indifferente nella piega che la politica economica del governo assumerà nel dare risposta alle istanze di tutti coloro che hanno affidato al centrodestra la soluzione delle loro preoccupazioni: il senso di impoverimento relativo che lamentano ampi strati della popolazione, tra i ceti medi e tra quelli operai, le paure per un futuro che a molti sembra difficile da anticipare e ancor più da pianificare.
Le idee dell’onorevole Tremonti rassicurano questi timori e sono compendiate in un saggio recente “La paura e la speranza" molto pubblicizzato.
L’analisi di Tremonti dello stato dell’economia italiana è riassumibile in una serie di punti che è utile ripercorrere: 1. Le difficoltà che attraversa la nostra economia originano in larga misura dalla forte pressione competitiva che proviene dalle nuove economie e innanzitutto dalla Cina; 2. Alla rapida crescita cinese si attribuisce il rincaro dei prezzi dei beni che compongono il paniere degli italiani e la conseguente perdita di potere d’acquisto. Alla Cina, e alla sua concorrenza “sleale” si imputa la difficoltà di tante imprese, spesso di piccole dimensioni, che lottano quotidianamente per non essere estromesse dal mercato. Da qui una domanda crescente di protezione. 3. La ricetta: proteggere lavoratori e imprese “gestendo” la globalizzazione, cercando di contenere la crescita e la pressione competitiva cinese (e indiana) con una qualche forma di governo mondiale dell’economia, di cui il governo italiano si farebbe promotore presso gli altri paesi dell’Unione. 4. Anche quel senso di insicurezza personale che molti lamentano e ricollegano alle recenti ondate di immigrazioni, sarebbe figlia del mancato governo della “globabilizzazione” e degli spostamenti crescenti di lavoratori che ha provocato.
Secondo Tremonti dunque i guai dell’Italia originano da una globalizzazione non governata e che è ora necessario imbrigliare per proteggere lavoratori e imprese italiane dai suoi effetti più diretti. Se la Cina crescesse meno, esercitasse minor pressione competitiva, i nostri lavoratori e le nostre imprese ne sarebbero sollevati. È la tesi no-global di Tremonti.
Che implicazioni ha tutto ciò sulla politica economica e in particolare sulla politica fiscale?
Il governo dovrebbe comunque affrontare il problema del debito, cercare di stabilizzarlo e contenerlo: un compito difficile. Ma se non riesce a fare quello che andrebbe fatto, allora la domanda di protezione dei cittadini dovrà essere soddisfatta in altra maniera.
Se l’analisi di Tremonti fosse corretta, e non lo è, di certo non lo è la ricetta. Non solo perché dazi e protezione commerciale sono alla lunga dannosi per chi li adotta, ma, più realisticamente, perché oggi sono inapplicabili.
Primo, la Cina è ormai una enorme potenza commerciale e politica. Economicamente è il secondo più grande paese al mondo dopo gli Stati Uniti, è presente in 174 paesi con oltre cinquemila imprese, produce più di tre volte dell’Italia (Pil in Ppp), ha una popolazione di 1.3 miliardi di persone, cresce del 10 per cento all’anno e, a questi ritmi, fra cinque anni la sua produzione sarà sei volte più grande di quella dell’Italia e pari al 70 per cento di quella dell’intera Unione Europea.
Lo stesso dibattito che imperversa in Italia e la stessa domanda di protezione attraversa da diversi anni gli Stati Uniti. Quello che le lobby industriali americane, notoriamente potenti e organizzate, sono riuscite a ottenere dall’amministrazione è stata solo una certa pressione sulla Cina perché lasciasse apprezzare lo yuan, ma nessuna cessione sulla richiesta di quote e dazi avanzate da un manipolo di senatori al Congresso. Ciò che la Cina ha concesso è un modesto apprezzamento del 15 per cento dello yuan sul dollaro, da quando ha abbandonato il cambio fisso. Non si vede perché Tremonti possa riuscire dove non riescono i ben più potenti Stati Uniti d’America.
Secondo, la Cina è ormai un enorme mercato di sbocco per le nostre imprese e per quelle degli altri paesi europei. Molte vi sono gia insediate, altre hanno in animo di farlo, altre semplicemente vi esportano i loro prodotti o importano dalla Cina prodotti intermedi e semilavorati a basso costo. Una economia che cresce al tasso del 10 per cento all’anno è una manna per molti. Difficile ottenere il consenso di queste imprese su una politica protezionistica.
Terzo, dell’importazione di beni cinesi a basso costo beneficiano in tanti, forse senza neanche rendersene conto; ma ne prenderebbero immediatamente coscienza il giorno in cui quei beni dovessero immediatamente diventare più costosi. Un esempio: buona parte dei manufatti di Ikea sono made in China e sono acquistati con soddisfazione da decine di migliaia di persone. Le associazioni dei consumatori, in Italia e in Europa, si ribellerebbero a proposte di contingentamento di questi manufatti.
Insomma, la ricetta Tremonti poteva forse essere tentata dieci anni fa, quando la Cina iniziava il suo cammino; oggi è semplicemente inapplicabile. La domanda di protezione dovrà essere soddisfatta attraverso altre strade o non essere soddisfatta affatto. Credo che quello che realisticamente avverrà sarà una combinazione delle due cose. Un po’ di trasferimenti pubblici e un po’ di detassazione mirata e limitata, dati i vincoli stringenti sulla finanza pubblica. Ma soprattutto un abbandono delle promesse di protezione a cui si è alluso in campagna elettorale.
Esiste una alternativa più seria che, se perseguita, potrà lentamente ridare ai cittadini la capacità di vedere lontano e pianificare meglio il proprio futuro, rassicurandoli nel presente. Ma questo richiede l’abbandono di alcune delle premesse del ragionamento tremontiano.
Innanzitutto la presa d’atto che la Cina esiste per tutti non solo per i lavoratori e le imprese italiane. Ma l’Italia da dieci anni a questa parte cresce sistematicamente meno degli altri in Europa: circa un punto percentuale in meno all’anno. Questo non è imputabile alla Cina, ma solo e unicamente alle carenze nazionali, alle riforme non fatte, alle liberalizzazioni solo accennate e mai perseguite fino in fondo, al peso delle inefficienze del settore pubblico, alla cattiva qualità dell’intervento dello Stato in economia, all’eccessiva quantità di questo intervento.
Il prossimo governo, con la maggioranza solida che lo caratterizza, può aver successo dove altri hanno fallito, come sulle liberalizzazioni. Recuperare un punto di crescita di Pil all’anno sarebbe un notevole risultato: da solo sarebbe sufficiente a ridare certezza e prospettiva a lavoratori e imprese.
Le idee di Tremonti, utili per conquistare consensi, non lo saranno altrettanto per risolvere i problemi del paese. Meglio cambiarle.

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